Oltre centomila copie vendute in sette giorni. Le Journal d’un prisonnier non è soltanto un successo editoriale «strabiliante» per usare l’espressione dell’editore Fayard: è un atto di pubblica difesa da parte dell’imputato più celebre di Francia, una atto di difesa mediatica.
Nicolas Sarkozy, condannato in primo grado per l’affaire dei finanziamenti libici alla campagna del 2007, racconta i ventuno giorni trascorsi nel carcere parigino della Santé da prigioniero speciale.
Lo stile è asciutto, concreto, e si concentra sulla quotidianità del detenuto numero 320 535: l’isolamento per ragioni di sicurezza dovute al suo status di ex presidente, le ore di scrittura che diventeranno poi il libro, l’attività fisica nonostante il mal di schiena, i pasti frugali, le notti disturbate dalle urla, i colloqui con la famiglia. Sarko racconta anche l’incontro all’Eliseo con Emmanuel Macron pochi giorni prima dell’incarcerazione, la successiva telefonata del presidente preoccupato per la sua sicurezza, il dialogo con Marine Le Pen dopo la condanna, fino a delineare una prospettiva politica futura fondata sull’unione delle destre. Il tutto raccontato senza pathos, ma con un messaggio chiaro, vergato nell’ultima riga del libro: «Dietro le sbarre della Santé la mia vita è ricominciata!».
In cella Sarko è stato anche un avido lettore, o almeno così ha lasciato intendere ai giornalisti, sbandierando all’entrata del carcere due volumi simbolici Il Conte di Montecristo di Alexandre Dumas e una biografia di Gesù.
I suoi detrattori denunciano una messa in scena calcolata, volta a suggerire l’idea di una persecuzione politico-giudiziaria, parlano di spettacolarizzazione della difesa, di una strategia comunicativa che sposterebbe l’attenzione dai fatti alla vittimizzazione e di attacco alla magistratura.
Ma questa lettura ignora completamente, o fa finta di farlo i tribunali del popolo istituiti nei talk show televisivi e nei social, il populismo penale e la logica dello scoop, l’influenza, enorme, di questo senso comune giustizialista sulla serenità giudici.
Da tempo lo Stato di diritto è ostaggio di quello che alcuni anni fa l’avvocato penalista Henri Leclerc Soulez Larivière ha definito «circo mediatico-giudiziario». Un sistema disfunzionale in cui indagini, intercettazioni, atti istruttori e semplici ipotesi investigative diventano materiale quotidiano per il dibattito pubblico, dati in pasto alle redazioni ben prima di qualsiasi processo e sentenza.
Un meccanismo fondato sulla connivenza strutturale tra media e procure che, secondo Soulez Larivière, sgretola le fondamenta della giustizia, trasformando il processo in uno spettacolo, l’imputato in un presunto colpevole e il diritto di difesa in un privilegio.
È in questo ribaltamento feroce che la difesa mediatica diventerebbe del tutto lecita, assumendo un significato diverso. Non più una furbizia comunicativa, ma una risposta quasi obbligata di fronte al rumoroso carrozzone colpevolista. Quando l’accusa si costruisce giorno dopo giorno sui media, restare in silenzio equivarrebbe a lasciare il campo libero all’assalto giustizialista, sottolineano gli avvocati di Sarkozy che stanno incoraggiando la strategia comunicativa del loro cliente.
Anche perché per la gran parte dei giornali salvo qualche eccezione, l’ex presidente non sembra aver alcun diritto alla presunzione d’innocenza (a marzo ci sarà il processo d’appello). In tal senso lanciare messaggi pubblici di grande impatto di fronte alla diffusa campagna colpevolista è una forma legittima di autodifesa.
Resta tuttavia un rischio: la difesa mediatica, quando diventa sistematica, può scivolare nella delegittimazione delle istituzioni giudiziarie e alimentare una sfiducia dei cittadini nei confronti di procure e tribunali. Ma il problema, come ricorda Soulez Larivière, non nasce dalla risposta degli imputati: nasce dal processo mediatico stesso, diventato strutturale, invasivo, per natura sommario.