Il commento
Non è solo per l’abrogazione di Opzione Donna, che pure è molto grave. Oltre ad essere iniqua e ingiusta, la quarta manovra del governo Meloni è fortemente punitiva per le donne perché svela in modo impietoso un ordine simbolico preciso: il destino femminile è pagare in solitudine il prezzo del lavoro riproduttivo, di cura e domestico. Le donne esistono, vengono percepite da questa politica, solo se e in quanto madri, invece che come il capitale umano indispensabile per il rilancio dell’Italia.
Al quarto giro di boa cadono tutti gli alibi: il primo governo della storia del Paese guidato da una Premier non lavora per le donne e non mette in discussione il modello di famiglia tradizionale, con la donna ad occuparsi dei figli e della famiglia e l’uomo protagonista della dimensione professionale e pubblica. Per capirlo basta mettere in fila le misure del provvedimento.
La perdita di Opzione Donna - una speranza di pensionamento che teneva conto del lavoro femminile non retribuito, ma non certo un regalo con il ricalcolo contributivo - apre una voragine nel destino di molte lavoratrici. Ancora più incisivi in senso negativo i pochi interventi sull’occupazione femminile. La decontribuzione previdenziale riservata alle imprese riguarda infatti l’assunzione di donne disoccupate da almeno sei mesi, ma con 3 o più figli minori, una platea ristretta. E se l’incentivo premia il tempo indeterminato, il governo ha tuttavia deciso in contemporanea di favorire la trasformazione a tempo parziale dei contratti di lavoro femminili.
In un Paese in cui per le donne il part time è involontario o l’unica alternativa per conciliare gli impegni famigliari e professionali in assenza di servizi, queste scelte del governo sono sbagliate e incoerenti. Non è così che si punta sulle donne e che si combatte la denatalità. Anzi, in questo modo si incoraggiano semmai le ragazze ad evitare la maternità, di cui non si riconosce il valore sociale. Secondo l’ultima ricerca dell’Istat sulle intenzioni di natalità nel nostro Paese, oltre la metà delle ragazze e il 65% delle giovani tra i 18 e i 24 anni ritiene che un bambino peggiori le proprie condizioni di lavoro, mentre il 59% dei ragazzi è convinto che una nascita non abbia ripercussioni sulla vita professionale.
Quasi un quarto delle ragazze tra i 25 e i 34 anni pensa di non avere garanzie economiche sufficienti per avere un figlio, a causa dei bassi salari e della precarietà. Il 28% degli intervistati indica nelle misure di sostegno economico la priorità per la natalità, il 26,1% i servizi per l'infanzia, il 23,1% le agevolazioni abitative. Peccato che queste voci siano totalmente assenti dalla manovra della destra, che ha respinto tutti gli emendamenti delle opposizioni per il congedo paritario, per rifinanziare il piano casa e il fondo affitti, per introdurre finalmente il salario minimo, per investire di più su sanità e istruzione, mentre l’obiettivo del 33% di accesso al nido previsto dal Pnrr è stato ridimensionato ed attualmente è fermo al 28% quale media nazionale.
Continua però una narrazione distorta della denatalità, quasi fosse colpa delle ragazze e delle donne. Ma se la maternità deve essere sempre una scelta di autodeterminazione, la sensazione è che le giovani, soprattutto le laureate, non siano disposte a pagare il prezzo troppo alto della rinuncia alla realizzazione professionale. Come dare loro torto? Invece che coraggiose scelte di campo quali un massiccio investimento sull’occupazione femminile e nei servizi di welfare, la destra continua infatti a prediligere la propaganda sulla famiglia e la politica dei bonus. Così alle lavoratrici con un reddito fino a 40 mila euro l’anno con due o più figli viene attribuita un’integrazione di 60 euro mensili, mentre soli 60 milioni di euro vengono destinati al potenziamento dei centri estivi e il congedo parentale viene esteso fino ai 14 anni dei figli, ma sempre al 30 per cento dello stipendio. Nel complesso, è tutto il contrario di ciò che ha fatto la Spagna di Sanchez, protagonista di una crescita del Pil del 2,7% nel 2023 e del 3,2% nel 2024, mentre l’Italia rimaneva inchiodata al di sotto dell’1%. La strategia vincente è stata di investire, tra il 2019 e il 2024, anche attraverso una riforma del mercato del lavoro che ha contrastato la precarietà, sull’occupazione a tempo indeterminato delle donne, che è arrivata al 65%, e sui servizi alla famiglia (con un 45% di copertura nido, tempo pieno e offerta educativa aggiuntiva).
Come Pd quest’anno abbiamo puntato tutti i 17 milioni di “tesoretto” parlamentare sul contrasto alla violenza contro le donne, per tentare di fare la differenza almeno nel sostegno ai percorsi di fuoriuscita dalla violenza maschile. È stata così portata da 500 mila euro a 5,5 milioni la dotazione per il 2026 del fondo per il reddito di libertà, è stato istituito un fondo con 6 milioni per garantire a chi denuncia violenza maschile gli stessi benefici di chi ha un Isee pari a zero e un altro con 7 milioni per sostenere i Comuni nell’organizzazione di corsi di parità nelle scuole secondarie di primo e secondo grado.
Resta il fatto che per uscire dalla stagnazione il nostro Paese avrebbe bisogno di perseguire con continuità scelte coraggiose come quelle inserite dai nostri governi nel Pnrr. Solo superando il divario di genere e incrementando l’occupazione femminile - cresciuta al 53,6%, ma ancora insufficiente e al di sotto della medie Ue e Ocse (e al Sud non supera il 50%) - l’Italia potrà tornare a crescere e diventare un Paese più giusto. La buona occupazione delle donne va considerata una leva macroeconomica centrale. Solo così si potrà evitare che i saperi e le competenze delle donne tra i 25 e i 44 anni restino schiacciati, come avviene ora, dal peso della carenza del welfare e dal dissidio tra maternità e lavoro. Se vogliamo che le nostre giovani leve non scappino all’estero e impegnino in Italia le loro migliori energie e risorse, tornando anche a fare figli, è urgente invertire la rotta.