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Il commento

Ecco perché lo Stato ha il dovere di garantire il diritto alla speranza anche dietro le sbarre

Dalla tradizione giuridica romana alla crisi delle carceri italiane: la speranza non è un’astrazione morale ma una pretesa giuridica esigibile

19 Dicembre 2025, 08:31

Ecco perché lo Stato ha il dovere di garantire il diritto alla speranza anche dietro le sbarre

A chi dubitasse della possibilità di ricondurre la speranza - intesa come aspirazione individuale alla verificazione di circostanze materiali e psicologiche capaci di determinare un miglioramento delle proprie condizioni di vita - alla ampia e generale categoria dei diritti soggettivi potrebbe utilmente venire in soccorso l’esperienza dei diritti dell’antichità. Ed infatti, sin dal diritto romano, la spes costituiva apprezzabile oggetto di diritti, sia in termini di semplice attesa di un evento aleatoriamente (emptio spei) preso in considerazione, sia in termini di concretizzazione di una ragionevole speranza (emptio rei speratae): distinzione sostanzialmente trapassata nell’odierno codice civile, che distingue tra vendita di cosa sperata e vendita di cosa futura.

Questa reviviscenza di istituti millenari serve qui lo scopo di munire di un solido fondamento positivo lo stato psicologico di chi nutre, appunto, una speranza. Non si tratta di vuota ed astratta aspirazione: essa partecipa dei fenomeni rilevanti per l’ordinamento giuridico, ovviamente nei limiti della meritevolezza dell’oggetto della speranza, ossia della sua compatibilità con i principi e le regole dell’ordinamento.

L’ulteriore implicazione è che, se la speranza, in quanto collegata ad una situazione giuridica tutelata, rientra nell’alveo del diritto, la sua illegittima delusione, ad esempio causata dall’altrui condotta inadempiente o elusiva, trova riconoscimento da parte del diritto attraverso gli strumenti adeguati ad assicurare la piena realizzazione della stessa e ad eliminare gli ostacoli ingiustamente frapposti.

A questa stregua, anche la condizione giuridica della persona privata della libertà, ed in particolare di quella che si trovi in stato detentivo sulla base di un legittimo provvedimento dell’autorità, nel connotarsi dell’auspicio al suo miglioramento o, addirittura, alla sua eliminazione, non soltanto non è priva di rilievo agli occhi del diritto ma sollecita risposte da parte dell’istituzione che governa tale stato.

Nell’attuale momento di straordinaria crisi che investe i luoghi di detenzione carceraria e, ancor prima, le persone che ne soffrono, va fissato il concetto che queste ultime non sono soltanto titolari di una generica speranza a vivere dignitosamente tale loro doloroso spazio di vita ma vantano una pretesa diretta ed esigibile nei confronti dello stato-apparato a vederla realizzata. Al contempo, e specularmente, si radica a carico di quest’ultimo uno specifico dovere di porre in essere ogni misura atta a scongiurare l'impossibilità della traduzione in realtà della speranza stessa.

Questo vale per la rimozione dei disagi derivanti dal sovraffollamento, dall’insufficienza di presidi medici, dalla carenza di operatori professionali, dalla mancanza di requisiti minimi di una vita decorosa (esemplificativamente con riguardo ai profili termici), dall’impedita, per qualsiasi causa, fruizione delle camere dell’affettività, dall’incongruità degli strumenti rivolti alla prevenzione di atti di autolesionismo o di suicidi.

A queste privazioni, totali o parziali, non può che sinallagmaticamente corrispondere una responsabilità statale da accertare e far valere nell’appropriato circuito giurisdizionale, collegato a quella autentica fucina di rinnovata civiltà giuridica costituita dal semisecolare, ed ancora vitalissimo, ordinamento penitenziario. Frustrare o rendere irrilevanti queste grandi speranze (per mutuare dal capolavoro Dickensiano “Great expectations”) significa introdurre un potente germe disgregatore del nostro ordinamento e turbare la pace sociale: tardare o immorare comporta l’assunzione di un tremendo peso.

Ricusare, perfino, di riflettere sulla possibilità di introdurre disposizioni immediate volte a non ostacolare le legittime aspirazioni dei detenuti rispetto ai quali la legge non ponga preclusioni predeterminate trascina un lungo corteo di disarmonie giuridiche e di ferite umane.

Un carico ormai non più tollerabile, come è persuasivamente emerso nel corso del convegno su “Il diritto alla speranza” tenutosi nel corso del giubileo dei detenuti: a questo messaggio occorre che le autorità responsabili in materia replichino senza remore hic et inde, e non con interventi tanto lontani nel tempo da apparire illusori e dilatori, ma con quelle misure, saggiamente e razionalmente calibrate, che la Costituzione riconosce e le circostanze storiche rendono impellenti. Perché, come si legge nella concurring opinion della Giudice irlandese Power-Forde, facente parte della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Vinter ed altri c Regno Unito, deciso nel 2013, «la speranza è un aspetto importante e costitutivo della persona umana. Anche coloro che hanno commesso crimini abominevoli ed inflitto ad altri sofferenze indicibili, conservano, tuttavia, la loro fondamentale umanità e portano con sé la capacità di cambiare».

Idee, queste, pienamente risuonate, con gli accenti propri dei rispettivi magisteri, nei moniti del Presidente della Repubblica e del Papa. (*PROFESSORE EMERITO DELL’UNIVERSITÀ DI PALERMO, COMPONENTE GARANTE NAZIONALE DEI DETENUTI)