Liberazione anticipata, la Consulta: senza riscontri semestrali non c'è rieducazione.
La Corte costituzionale ha demolito un pezzo della riforma carceraria voluta quest'estate dal governo. Con la sentenza numero 201, i giudici della Consulta hanno dichiarato illegittima la norma che aveva di fatto cancellato il diritto dei detenuti a chiedere, ogni sei mesi, se il loro percorso in carcere sta funzionando. Una decisione che riporta al centro una domanda semplice: come si rieduca davvero una persona che ha sbagliato?
La storia parte dal luglio scorso, quando il decreto-legge 92 ha riscritto le regole della liberazione anticipata. Questo beneficio permette di scalare 45 giorni di pena per ogni semestre scontato, se il detenuto partecipa al percorso rieducativo. Prima della riforma funzionava così: ogni sei mesi il detenuto poteva chiedere al magistrato di sorveglianza di verificare il suo comportamento. Se andava bene, otteneva subito il riconoscimento di quei 45 giorni in meno. Poteva calcolare quando sarebbe uscito, quando avrebbe potuto chiedere misure alternative. Aveva una certezza su cui costruire.
Con la riforma tutto è cambiato. L'idea era alleggerire il carico di lavoro dei magistrati di sorveglianza. Così la valutazione non si fa più semestre per semestre su richiesta del detenuto, ma d'ufficio, in blocco, solo quando si avvicina il fine pena o quando serve per un beneficio. Il detenuto può fare istanza solo se ha uno "specifico interesse" da indicare a pena di inammissibilità. Due magistrati di sorveglianza, uno di Spoleto e uno di Napoli, dovevano respingere le istanze di detenuti che chiedevano semplicemente di sapere come stavano andando. E hanno sollevato la questione davanti alla Consulta.
La risposta dei giudici costituzionali è netta. Nella motivazione c'è un passaggio che vale più di mille tecnicismi: è come se a uno studente fosse impedito di conoscere l'esito del suo percorso solo alla fine, senza mai poter confrontarsi con i professori, senza poter correggere il tiro. La Corte riprende una sua sentenza del 1990: la cadenza semestrale è "il punto di forza dello strumento rieducativo", perché offre "una sollecitazione che impegna le energie del condannato alla prospettiva di un premio da cogliere in breve tempo". Il meccanismo semestrale era un vero dialogo. Se il magistrato diceva sì, il detenuto vedeva riconosciuto il suo impegno. Se diceva no, non era un fallimento definitivo: era un campanello d'allarme per cambiare rotta al semestre successivo. Con la riforma questo dialogo si spezza. Il detenuto resta "nell'incertezza circa la meritevolezza del percorso nel frattempo compiuto" e quando arriva il momento della valutazione, magari dopo anni, "non è più in grado di correggere efficacemente il proprio comportamento".
L'Avvocatura dello Stato ha provato a difendere la norma: la liberazione anticipata viene comunque riconosciuta, solo in un momento diverso. Ma la Corte non ci sta: sapere in astratto quanto puoi guadagnare non è la stessa cosa di avere la certezza, ogni sei mesi, che quello che stai facendo funziona davvero. C'è anche un altro problema. Se il magistrato deve valutare tutti i semestri insieme, magari dopo anni, come fa a ricostruire con precisione cosa è successo? Come può motivare bene la decisione? E il detenuto come fa a difendersi, a produrre prove di comportamenti ormai lontani nel tempo? Il governo aveva tentato un correttivo con il decreto 176 del 2025: se la direzione del carcere dà un giudizio negativo sul semestre, il detenuto viene avvisato e può fare istanza. Ma anche questo non basta. Quello che conta non è il giudizio dell'amministrazione penitenziaria, ma quello del magistrato, che può essere diverso.
La soluzione della Consulta è chirurgica: cancella tutte le parole che subordinano l'istanza all'esistenza di uno "specifico interesse". Resta solo: "Il condannato può formulare istanza di liberazione anticipata". Quando vuole, per ogni semestre scontato. La sentenza arriva mentre le carceri sono sovraffollate e le opportunità di percorsi rieducativi sono poche. In questa situazione, scrive la Corte, "poter scandire mediante le valutazioni periodiche il tempo immobile della detenzione costituisce un incentivo, e a volte il solo incentivo residuo".
È una decisione che riporta al centro l'articolo 27 della Costituzione: le pene devono tendere alla rieducazione. La finalità rieducativa "non può essere sacrificata a vantaggio di alcun'altra, seppur legittima, finalità della pena". La parola della Consulta è chiara: non si rieduca una persona lasciandola al buio sul suo percorso. Il cambiamento ha bisogno di riscontri. Semestre dopo semestre.