Lunedì 22 Dicembre 2025

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L'Analisi

Giorgia Meloni e la manovra che non si vede

22 Dicembre 2025, 17:21

Giorgia Meloni

Giorgia Meloni

La manovra non è un faldone per specialisti, è un verdretto politico: decide chi resta protetto e chi resta esposto, dove finisce la protezione collettiva e dove comincia il rischio privato. Eppure, proprio mentre dovrebbe stare al centro della discussione, scivola spesso ai margini, perché parlarne davvero significa restare sulle scelte, e le scelte vengono facilmente spostate su un altro piano. La specificità del governo Meloni è che questa difficoltà non viene compensata con più tempo pubblico e più chiarezza, ma viene amministrata come condizione utile. La manovra resta nel registro della necessità, di ciò che “si deve fare”, mentre la politica si gioca altrove, dove il racconto è più immediato e il conflitto è più governabile. Il passaggio decisivo è la capacità di sigillare la manovra con una patina morale. “Seria”, “responsabile”, “equilibrata”, “attenta” non sono solo aggettivi: sono un filtro, perché se il bilancio è “serio”, chi lo contesta rischia subito di apparire poco serio; se è “responsabile”, la critica viene riscritta come pregiudiziale. È una disciplina del dibattito che non ti vieta di parlare, ma ti rende costoso farlo. È in questo modo che il merito, prima ancora di essere confutato, viene reso scomodo.

In questo schema, la manovra viene “venduta” come se fosse una svolta, come se contenesse una traiettoria forte e un disegno riconoscibile, quando spesso tocca nodi reali senza incidere davvero sulle strutture che li producono. Non è una contraddizione, è il modo in cui la narrazione copre lo scarto tra promessa e incidenza, trasformando interventi di manutenzione in certificati di direzione. E quando la direzione viene presentata come già dimostrata, la domanda sul merito diventa quasi una scortesia. A rendere il dispositivo ancora più netto contribuisce la conferenza di “fine anno” che slitta sempre più spesso a gennaio. Non è una pignoleria di calendario, perché se il momento che dovrebbe spiegare e ricapitolare arriva quando la manovra è già chiusa, la parola pubblica non accompagna il processo: lo convalida. Quest’anno, però, l’invisibilità passa anche dal rumore interno alla maggioranza: litigi, divisioni interne, colpi bassi, stop and go continui anche su capitoli sensibili come le pensioni.

Questo rumore non resta chiuso nei palazzi, diventa clima e, paradossalmente. Quando la scelta appare instabile, la scena si riempie di ciò che è più facile tenere fermo: simboli, riconoscimenti, occasioni perfette per occupare il centro affettivo del Paese senza entrare nella fatica dei capitoli di bilancio. È qui che gli esempi contano. La cucina italiana riconosciuta dall’UNESCO è un orgoglio reale, e nessuno dovrebbe sentirsi in colpa per esserne contento; il punto è l’uso che se ne fa, perché un fatto istituzionale e comunitario diventa facilmente un trofeo politico, mentre le domande sulle scelte restano in secondo piano. Allo stesso modo, l’“oro del popolo” di Bankitalia funziona perché alza la temperatura senza costringere a entrare nel merito: basta una formula, basta un sospetto, e una materia tecnico-istituzionale diventa racconto morale, con un avversario implicito già incorporato.

In concomitanza con tutto questo, Atreju diventa una messa in scena della “discussione” che, proprio perché è molto visibile, finisce per valere più della discussione stessa. Sembra il luogo dell’apertura, della pluralità, della libertà di parola, ma nella pratica assomiglia spesso a un confronto a condizioni già stabilite: non tanto perché qualcuno venga espulso, quanto perché chi entra deve adattarsi ai tempi, alle domande e al modo in cui quelle domande vengono poste. Il risultato è che lo scarto tra merito e giudizio si riproduce anche lì e le argomentazioni vengono assorbite, tradotte, spesso ricondotte al punto che conviene al governo, cioè al piano in cui non si discutono più le scelte ma l’affidabilità di chi le contesta. È anche per questo che il messaggio dell’opposizione fatica a passare davvero: non perché manchi di argomenti, ma perché arriva già riscritto prima di arrivare.

E lo stesso filtro vale fuori da Atreju. Anche quando la protesta prende la forma dello sciopero, la domanda politica viene ridotta a un giudizio morale: non la si prende come segnale di un conflitto reale, la si tratta come scorciatoia, come gesto comodo, come se fosse non voglia di lavorare. È una riduzione che regge solo finché si finge di non vedere la cosa più elementare: lo sciopero costa, per questo non è una posa, ma un indicatore di frattura. Trasformarlo in colpa personale serve a evitare il merito, ma produce anche un effetto collaterale pesante, perché diseduca al significato stesso del dissenso sociale e impoverisce la cittadinanza. E dentro questa stessa logica, le donne restano un indicatore netto: quando lavoro femminile e servizi di cura restano laterali, il messaggio è che la soluzione è privata, che ci si arrangia, e che il peso torna sulle famiglie, spesso sulle spalle femminili.

Ecco perché questa manovra “non si vede”: non perché sia invisibile per natura, ma perché viene sigillata come necessità e raccontata come virtù, mentre la politica si svolge su un’altra scena. Ma una scelta, per essere democratica, deve tornare a rispondere senza retorica a tre domande elementari: chi paga, chi riceve, a cosa rinunciamo.

Atanasia Fabbricatore
Sociologa, Assegnista di ricerca Università della Calabria