La Corte costituzionale presieduta dalla presidente Marta Cartabia ha pronunciato ieri una sentenza particolarmente importante anche dal punto di vista istituzionale, perché, tra l’altro, ha dichiarato illegittima una consolidata – ma erronea – interpretazione giurisprudenziale sostenuta dalla Cassazione.

Al di là dei rapporti tra la Corte e la Cassazione, qui importa che ad esser dichiarata incostituzionale è stata una norma della c. d. legge “Spazzacorrotti” ( legge 9 gennaio 2019 n. 3), fiore all’occhiello del tuttora ministro della giustizia Alfonso Bonafede e dei Cinque Stelle allora al governo con la Lega.

Già di per sé un titolo così provocatoriamente propagandistico suscita inquietudine e preoccupazione. In particolare, la legge del 2019 è intervenuta su un tormentatissimo articolo dell’ordinamento penitenziario, ove si prevede che i condannati per delitti di rilevante gravità - tra cui quelli di terrorismo, eversione dell’ordinamento democratico, associazione di tipo stampo mafioso, riduzione in schiavitù, prostituzione minorile, pedo- pornografia - non possono, salvo che collaborino con la giustizia, esser destinatari delle misure alternative al carcere, cioè non possono usufruire della semilibertà, dell’affidamento in prova al servizio sociale, della detenzione domiciliare.

Ebbene, la trovata di ingegno della “spazzacorrotti” è l’estensione di quei divieti ai condannati per alcuni reati contro la Pubblica amministrazione, tra cui peculato, concussione, corruzione: come se fosse possibile equiparare la gravità dei delitti di terrorismo o di associazione mafiosa ai fatti, certamente riprovevoli ma talvolta di modesto rilievo, commessi da corrotti e corruttori.

Sin qui, dunque, si può parlare di inopportunità e di superficialità dell’equiparazione propagandistica tra categorie di reati tra loro non comparabili, ma non di incostituzionalità.

Tanto è vero che i 17 giudici che hanno sinora sollevato questione di legittimità costituzionale nei confronti della legge del 2019 non hanno messo in discussione questi profili.

Come a dire che rientra nella discrezionalità del legislatore produrre talvolta norme poco sensate, di cui comunque la maggioranza parlamentare sarà a suo tempo chiamata a rispondere politicamente davanti al corpo elettorale.

L’incostituzionalità sta nel fatto che ci si è dimenticati di inserire nella “Spazzacorrotti” una norma transitoria, volta a stabilire che il divieto di accesso alle misure alternative è operante solo quando i reati ostativi siano stati commessi dopo l’entrata in vigore della nuova legge, cioè dopo il 31 gennaio 2019. In questa “piccola” dimenticanza sta appunto il profilo di illegittimità costituzionale per violazione del principio di irretroattività della legge penale enunciato dall’articolo 25 della Costituzione, mediante la formula, di consolidata e indiscussa civiltà giuridica, in base alla quale «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso».

La stessa Avvocatura dello Stato, istituzionalmente chiamata a difendere la conformità alla Costituzione della norma di cui si sospetta l’incostituzionalità, ha eccezionalmente sostenuto in questo caso l’incostituzionalità della mancata previsione della irretroattività della legge del 2019.

La Corte costituzionale si è però trovata di fronte a un ostacolo non di scarso rilievo, in quanto secondo la consolidata giurisprudenza della Cassazione nella nozione di legge penale non rientra la disciplina dell’esecuzione della pena detentiva. E cioè, secondo la Cassazione, la pena detentiva scontata in carcere piuttosto che in libertà, mediante l’affidamento in prova al servizio sociale, ovvero in regime di semilibertà sono piccoli particolari che non rientrano nella disciplina della legge penale.

La Corte ha dichiarato questa interpretazione formalistica costituzionalmente illegittima e nello stesso comunicato diffuso dall’Ufficio Stampa ha fatto sapere che il principio costituzionale di irretroattività della legge penale si riferisce anche alle norme che incidono sulla natura della pena, trasformando il carcere in sanzione da scontare in libertà.

In questo senso, cioè solo in caso di reati commessi dopo il 31 gennaio 2019, dovrà d’ora innanzi essere interpretata l’infelice legge del 2019, senza che sia neppure richiesta una iniziativa del ministro della giustizia Alfonso Bonafede, tuttora in carica.