La sentenza sulla trattativa Stato-mafia «va rispettata. Lho detto anche in passato. Se noi politici cominciamo a commentarle andiamo a ingerire con un altro potere dello Stato». Messe così, queste parole, sembrerebbero uscite dalla bocca composta di un qualsiasi esponente del Partito democratico. Ma se così fosse non avrebbe alcun senso riportarle, svuotate dalla formula di rito le sentenze si rispettano sempre. Invece a pronunciarle è stato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, esponente di spicco ed ex frontman di un partito, il Movimento 5 Stelle, che ha costruito un'intera fortuna sulla narrazione di un Paese marcio, corrotto nel midollo, gestito a suon di trame e insabbiamenti. A prescindere dalle sentenze (di condanna o d'assoluzione, non importa) o dal semplice buonsenso. Per questo le parole di Di Maio diventano notizia.Le mura della Farnesina hanno fatto cambiare prospettiva a un leader - che solo tre anni fa chiedeva l'impeachment per Sergio Mattarella, colpevole, a suo lasciar intendere, di aver calpestato la volontà popolare - e lo hanno trasformato in un uomo delle istituzioni. Che ribalta tutta la vecchia retorica pentastellata e la butta nel cassetto dei ricordi spiacevoli da non aprire, gettando nello sconforto molti sacerdoti delle manette facili. C'è chi, come il presidente della commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra, dopo il pronunciamento della Corte di Assise di Appello palermitana arriva a scomodare il Pasolini del «io so ma non ho le prove» per dire senza imbarazzo che «le sentenze dei tribunali sono certamente importanti» ma è «compito del politico democratico far emergere verità se si vuole fare giustizia». E prima che il grillino sospeso Morra si trasformi anche in giudice, Di Maio interviene per stroncare tentazioni analoghe tra quanti, nel M5S, continuano a subire il fascino di quelle sirene. Con buona pace di Marco Travaglio e del Fatto quotidiano, organo non ufficiale del partito, che dal giorno della sentenza di Palermo non fanno altro che urlare ai reduci: non rompete le righe, la trattativa c'è stata, troveremo le prove prima o poi. Ma questa volta Grillo il megafono non rilancia più il messaggio.