Sono pugliese, di Bari. A Taranto direbbero pugliese del Nord, e questo da solo racconterebbe il senso relativo delle coordinate geografiche. Conosco Taranto e i suoi due mari: in uno ci passo giorni d’estate. In quel bellissimo golfo la mattina si staglia in lontananza lo skyline del “mostro”, che ha cambiato nome tante volte - Italsider, Ilva, Riva, Arcelor Mittal - e che sbuffa e fa luci rosse come un drago delle saghe di re Artù. O come le foto inarrivabili di David La Chapelle, che riproduce in studio modellini di fabbriche morenti.

Solo che l’Ilva non è un modellino, ma una città grande quasi una volta e mezzo la città. Da un lato la metropoli dei due mari, del ponte girevole, delle cozze mitologiche, del museo con gli ori di Taranto.

Dall’altro la metropoli degli altiforni, delle generazioni di tarantini con il posto sicuro, dell’orgoglio italiano per l’acciaio, ma anche della perduta salute di operai e famiglie dei quartieri attorno. Quello che accade in queste ore non è solo l’immagine che sta a fatica nella cartolina illustrata in cui inferno e paradiso si guardano in faccia, ma è anche il racconto di un rimosso collettivo, in cui la politica- tutta: passata, trapassata e presente- non riesce a fare autocritica.

Salute o occupazione? È un’alternativa indecente che abbiamo il dovere civile di rifiutare. Piuttosto che cercare, come stiamo vedendo fare sulle orme di Bob Dylan, le risposte nel vento ( Blowin’ in the wind,

Columbia Records, 1963), forse si potrebbe riflettere sulla sentenza della Corte Costituzionale che, nel marzo 2018 poneva paletti sulla questione, ricordando che nel nostro ordinamento la salute dei cittadini e la sicurezza dei lavoratori sono pilastri fondamentali. Dunque la storia degli “scudi penali” che dovrebbero garantire una posizione di immunità all’Arcelor Mittal non può che essere letta alla luce di quella sentenza.

Anche perché, come si usava dire, mi si consenta: la stessa magistratura tarantina ha fatto sapere a chiare lettere che non avrebbe mai potuto perseguire chi si fosse adoperato per bonificare le condizioni in cui si sviluppa la produzione, tanto meno se le responsabilità fossero state in capo ai predecessori.

Fuori da questo, però, c’è il passaporto del legibus solutus che, francamente, mal si combina con la nostra Costituzione. Ma forse il tema Ilva sovrasta anche la questione dello scudo e interpella la politica sulla visione strategica relativa all’acciaio.

E qui il senso dell’Ilva si declina con la politica di una potenza industriale come l’Italia. Che fine farà l’acciaio in Italia? Abbiamo qualche idea? Ammettendo che il colosso indiano di Arcelor davvero abbia colto a pretesto l’andamento ondivago del governo sullo “scudo” per scappare da Taranto secondo un piano studiato a tavolino- acquisisco, ridimensiono e, appena posso, vado via- solo per eliminare il concorrente ( minore) italiano, quale sarebbe il nostro piano B?

Non mi pare che, il pur necessario, percorso tribunalizio (“Gli facciamo causa!”) possa sopperire alla mancanza di visione strategica. Che forse non si addice ad una politica del tempo brevissimo di una campagna elettorale, ma il governo giura ogni giorno di guardare al traguardo di legislatura.

Abbiamo, sinceramente, apprezzato il coraggio e la cifra umana che hanno portato Conte ad incontrare gli operai dell’Ilva. Tuttavia il pezzo politico ancora non si vede in questo difficile frangente. E questa volta ci pare che il richiamo a Blowin’in the wind non potrà bastare ai lavoratori di Taranto.