Una sera di qualche tempo fa, tornando dall’Umbria, mia moglie ed io fummo sorpresi dalla comparsa di una stupenda luna piena che, appena spuntata fra i colli, si faceva strada fra le nubi, residuo di un giorno di pioggia intensa.

Rimanemmo estasiati da questa vista ed esclamammo quasi all’unisono: “Che felicità!”

Veramente l’esperienza della felicità è il prodotto di fattori complessi che riguardano probabilmente anche la possibilità di cogliere il bello in tutte le sue forme grazie alla capacità di utilizzare i sensi e di “affettivizzare” le nostre percezioni.

Se ogni giorno riusciamo a vivere dei bei momenti possiamo fruire della dimensione estetica della esistenza. Quando stiamo in condizioni di relax e sentiamo una musica che ci è cara, ma ci stupisce come se la ascoltassimo per la prima volta, quando siamo sorpresi dalla vista di un lago, del mare, di una montagna, quando assaporiamo una pietanza che ci richiama nella mente una atmosfera particolare, quando l’odore della pioggia dopo una lunga siccità ci colpisce e stordisce possiamo fare l’esperienza del bello con una intensità che, talora, trova a stento le parole adeguate per essere espressa.

Questa è stata la molla che, almeno all’inizio, spinse Marcel Proust nella sua Recherche du temp perdu attraverso una indagine che partiva dalla considerazione che quel riflesso su una pozzanghera a Venezia, quella fila di alberi visti sfilare andando in carrozza, quel sapore della madeleine brevemente inzuppata in una tisana, quei campanili di Balbec dovevano significare qualcosa d’altro. Come si sa Proust continuò la sua ricerca fino a risultati stupefacenti; tuttavia in alcuni casi quella esperienza iniziale, come ad esempio la teoria degli alberi visti dalla carrozza, si fermò lì e non riuscì a suggerire nulla di più di quello che aveva svelato al suo primo apparire.

Torniamo alla riflessione sulla felicità anche se voglio limitarmi ai contenuti oggettivi della felicità, quelli che suggeriscono, su piani diversi, ciò che potrebbe definirsi, grazie all’utilizzazione del linguaggio specifico della riabilitazione, la manutenzione della felicità. Sul frontespizio della pubblicazione delle prime sonate per clavicembalo di Domeico Scarlatti è scritto forse di pugno del compositore: “Vivi felice!”.

Nella sua vita Scarlatti visse probabilmente “sopra le righe” spostandosi spesso non solo in forza dei suoi successi come virtuoso del clavicembalo e come compositore, ma anche come accanito giocatore d’azzardo che aveva la necessità, ogni tanto, di fare perdere le sue tracce ai creditori. Il senso di bellezza, che trasmettono le 555 sonate per clavicembalo del compositore partenopeo, mi fa pensare che la felicità è decisamente più a portata di mano di quanto siamo portati a immaginare. Non molto tempo fa una mia allieva universitaria mi scriveva in un tema che per lei era la massima esperienza di pace e di protezione nuotare in piscina ascoltando le sonate di Scarlatti con un particolare ipod subacqueo.

Tutte queste esperienze caratterizzate da una durata limitata ma destinate ad espandersi nel nostro vissuto possono essere definite come Now moments, cioè come momenti attuali, o anche momenti regalati.

La quotidiana esperienza del bello costituisce uno dei cinque punti fondamentali per avere momenti di felicità nella nostra vita. Potremmo dire che l’accesso alla esperienza del bello, una esperienza che non ha nulla a che fare con l’idea di lavoro e di produzione, è uno dei contenuti della felicità.

Come una mano ha cinque dita, così anche la felicità ha le sue condizioni sufficienti affinché venga esperita. Un altro elemento è costituito dalla percezione di avere una salute psichica e fisica sufficiente. Si badi bene che non si richiede una salute perfetta, ma una condizione che garantisca almeno l’assenza di sofferenza perché basta un banale mal di denti per oscurare fatalmente anche il più bel momento della propria esistenza. È evidente che tutte le spasmodiche cure dedicate al corpo da parte delle persone che praticano il body building, tutte le forme di anoressia, le dipendenze da ormoni per avere performance atletiche e così via impediscono strutturalmente di sperimentare momenti di felicità.

La terza condizione è quella di poter svolgere una attività lavorativa non del tutto imposta dalla propria origine e/ o dal proprio ambiente di vita. Ci volle la mediazione dello zio materno di Charles Darwin, Josiah Wedgwood, per convincere il padre che quel figlio sognatore e fallimentare studente di medicina potesse imbarcarsi sulla nave Beagle per una lunga serie di ricerche scientifiche che avrebbero avuto una importanza centrale per tutti noi.

Nella famiglia di origine di Darwin erano concesse solo tre possibilità di carriera: si poteva diventare giudice, medico oppure pastore anglicano.

Tuttavia se il lavoro è l’unico mezzo e luogo di realizzazione finiamo per diventare “uomini a una dimensione”, secondo la fortunata espressione coniata da Herbert Marcuse. Pensare che una vita felice possa misurarsi prevalentemente sul grado di realizzazione professionale è un vero azzardo, anche se ciò appare desiderabile.

Definirei il quarto elemento cardine della felicità con il termine di una polarità affettiva. Intendo con questo binomio la presenza nella nostra vita con una certa costanza di una persona (partner, figlio/ i, nipote/ i, un genitore, un amico caro…), ma anche, in mancanza d’altro, di un animale (cane, gatto, pappagallo, tartaruga…) che reciprochi il nostro bisogno affettivo.

Quando i bambini piccoli rifiutano il cibo e a un tratto smettono di mangiare, ad esempio, la minestra, l’adulto che li imbocca di solito dice: “Va bene, ma ora manda giù solo pochi cucchiai: uno per la mamma, uno per il papà, uno per il fratellino, uno per la nonna…”.

Anche un limitato nucleo famigliare permette di finire la minestra perché il bambino effettivamente mangia non per sé, bensì mangia per gli altri ai quali è legato affettivamente.

A ben vedere quasi tutti i nostri sforzi nel mondo sono motivati da una molla affettiva. Jolanta, una mia paziente bulgara, è terrorizzata dalla possibilità, purtroppo non remota, di un imminente sfratto, ma è preoccupata non tanto per sé quanto per Amleto, il suo gattino, che ha portato da Sofia due anni fa. Un mio paziente schizofrenico ha un cactus che, nei decenni, è diventato una cospicua palla spinosa; lo accarezza più volte al giorno con il suo sguardo e spesso gli si rivolge, quasi fosse un suo muto interlocutore.

L’ultimo contenuto della felicità è costituito da momenti quotidiani di meditazione.

Mia moglie mi dice che io sono un buddhista naturale, nel senso che, secondo lei, avrei acquisito per vie misteriose delle consapevolezze che derivano di solito da anni di pratica meditativa.

Non so se ciò sia vero fino in fondo. A me piace pensare che la meditazione sia alla portata di tutti e che sia un derivato della pratica analitica che viene dalla capacità di poter stare da soli, di provare fiducia e di poter sempre essere aperti al gioco e alla conoscenza.

* Psichiatra