«La diffidenza della magistratura nei confronti degli avvocati non è altro che un meccanismo di autoprotezione: il magistrato si sente come il buon padre di famiglia e l’avvocato deve essere tenuto fuori, perché lui sì che viene inteso come soggetto che ha un interesse “partigiano”». A dirlo è Cesare Placanica, ex presidente della Camera penale di Roma, che al Dubbio spiega il perché di una insofferenza sempre più palese.

I casi di Potenza e Brescia rappresentano una degenerazione del rapporto tra magistratura e avvocatura. Ritiene che ci sia una sorta di timore, da parte delle toghe, nei vostri confronti? 

Credo sia doveroso, intanto, distinguere il “bestiario” da quello che accade normalmente. I casi di Potenza e Brescia sono patologici e il dato patologico va isolato e va affrontato, evitando un approccio massimalista al problema, non serio e neanche corretto. Al tribunale di Roma, faccio un esempio, non ho mai visto trasformare il certificato medico in notitia criminis. Ma lo dico come dato obiettivo anche rispetto all’autorevolezza della classe forense, che non è al punto di essere messa in discussione, da questo punto di vista. Il discorso è, in realtà, molto più serio e profondo quando riguarda non il dato patologico, ma l’approccio alla gestione della giustizia.

In che senso?

Faccio un esempio: chiunque voglia occuparsi di capire un problema del sistema giustizia deve per prima cosa ancorarsi ai dati. Noi avvocati abbiamo da anni, sulla scorta della nostra esperienza, la sensazione che l’udienza preliminare sia completamente fallita, perché nessun giudice, anche per motivi tecnici, fa effettivamente da filtro. E abbiamo anche la sensazione di un fallimento rispetto a quello che era la funzione di controllo vera e propria del gip rispetto al pubblico ministero. Faccio questo lavoro da 31 anni e non credo ci sia la dovuta diffidenza nell’approccio del gip rispetto all’ufficio del pubblico ministero. Piuttosto c’è l’opposto, un approccio “confidente”.

Per “diffidenza” intende un approccio critico al materiale probatorio? 

Sì. Il giudice deve riscontrare che l’impostazione e l’idea accusatoria siano effettivamente fondate, soprattutto nella fase dell’applicazione della misura cautelare. Anche rispetto ai Tribunali della Libertà di tutta Italia abbiamo la sensazione che il vaglio non sia così approfondito come dovrebbe essere. Noi abbiamo un sistema che in nessun modo accetta il rischio di un colpevole condannato e che invece, fisiologicamente, accetta il rischio di un colpevole mandato assolto. Può sembrare anche non bello: chi non ha sensibilità democratica e liberale ripudia questo concetto. Quando quel famoso magistrato dice che si tratta di colpevoli che la fanno franca è perché lui, per sua sensibilità culturale e giuridica, non accetta la possibilità del colpevole che, per insufficienza del materiale probatorio, venga assolto. Invece il sistema questo lo pretende. Quello che un sistema democratico non può accettare è l’opposto: il bicchiere deve essere visto sempre mezzo pieno e mai mezzo vuoto. Questo approccio critico, dicevamo, non c’è. E tornando al discorso originario, per capire se questa sensazione sia una follia o anche soltanto una cattiva impressione dovuta alla prospettiva in cui si pone l’avvocato, esattamente opposta a quella del pm, basterebbe cominciare ad analizzare i dati statistici. E dire quante misure cautelari siano accolte e quante rigettate. Sarebbe interessante. Perché se viene rigettata la metà delle richieste allora, forse, avrebbe ragione il pubblico ministero. Ma se ne viene accolto il 99% allora forse abbiamo ragione noi a dire che non c’è un vero vaglio.

E i dati cosa dicono?

Vengono, con dolo, tenuti nascosti. Eppure non sono di chi amministra la giustizia, perché il sistema giustizia è gestito dalla politica, nel senso più alto e più nobile del termine, e i protagonisti del sistema giustizia, con funzioni diverse e con pari dignità, sono tutti essenziali allo scopo finale di un processo, che è quello di accertare il più possibile come siano andati dei fatti, scongiurando soprattutto il pericolo di condannare un innocente.

Da cosa dipende questa diffidenza rispetto alla classe forense? 

È un meccanismo di autoprotezione, una visione filosofica autoritaria e autocratica della gestione della giustizia. Il magistrato si sente come il buon padre di famiglia e non ce l’ha con l’imputato, perché non farebbe nulla contro di lui. Il cittadino è oggetto della giustizia. E per quanto quella dell’avvocato sia una funzione pubblica, che non fa parte del sistema autoritario, deve essere tenuto fuori dal sistema giustizia, perché lui sì che viene inteso come soggetto che ha un interesse “partigiano”. Quindi il pm “imperatore” gestisce tutto autonomamente, perché si percepisce come imparziale, caratteristica che non attribuisce al soggetto con il quale dovrebbe interloquire. Questa concezione autoritaria è smentita dalla storia, perché inevitabilmente porta verso distorsioni. E l’unica cosa che non consente le distorsioni è un efficace e vero sistema di controllo. Le degenerazioni del caso di Palamara sono dovute proprio a questo: dalla mancanza effettiva di controllo, che può avvenire solo con la trasparenza.

A tal proposito, una forma di “controllo” potrebbe essere rappresentata dal diritto di voto agli avvocati nei Consigli giudiziari, soluzione molto criticata dai magistrati. Secondo lei perché?

È l’unico modo per evitare una deriva che è sistematica di ogni sistema chiuso. Il potere si autoalimenta, non accetta il contraddittorio, tutto quello che è al di fuori è sbagliato e ha necessità proprio di una chiusura. E il controllo, perché sia effettivo ed efficace, pretende trasparenza. Il che vuol dire che io devo stare lì dentro, devo vedere e devo poter decidere. Altrimenti è un soliloquio. Ed è per questo l’idea che non piace.

Un altro esempio di diffidenza ha riguardato la sentenza della Consulta sulla segretezza della corrispondenza tra detenuti al 41 bis e difensori: per alcuni magistrati significava autorizzare la consegna di veri e propri pizzini tramite l’avvocato.

Come dissi a Travaglio, quella considerazione è stata vergognosamente offensiva. Intanto perché appena si scopre che un avvocato si presta a cose del genere deve essere ovviamente radiato dall’ordine e processato, e l’avvocatura deve costituirsi parte civile. Ma siamo sempre nell’ambito del patologico. La Consulta si è posta il problema e ha detto che è una facoltà connaturata al diritto di difesa, che c’è in ogni Stato democratico, quindi ha un rango primario rispetto ad un’eventuale possibile patologia di fondo. Dopodiché la Corte ha detto chiaramente che una riflessione su questo dato si potrebbe fare se fosse patrimonio acquisito alla nostra conoscenza l’esistenza di una ricorrente trasgressione, da parte della classe forense, del divieto di legge di non portare notizie di mafia dal boss detenuto ai suoi consociati. Siccome questo dato empirico non esiste e non esiste una prassi - e nemmeno un’apprezzabile casistica -, come hanno detto i giudici, né è ipotizzabile, questa riflessione non può essere fatta. Fermo restando che se si arrivasse a fare il dibattito bisognerebbe capire cosa sacrificare rispetto a un'esigenza di polizia. È così brutale, disarmante e miserabile il ragionamento che è stato fatto da non poter essere preso in considerazione. Ma questo è il sintomo della volontà di minare una gestione che sia effettivamente democratica della giustizia.

Quale potrebbe essere la soluzione?

Intanto vorrei dire che l’avvocato nel Consiglio giudiziario non ha interesse a starci. L’interesse è della collettività, che vuole garanzie sul fatto che un potere incredibile ed eccezionale come quello di somministrare giustizia abbia un serio controllo. E quindi non è un problema dell’avvocato, ma del cittadino. Quello che si deve fare, poi, è parlarne. Far capire alle persone di cosa si tratta, demistificando gli argomenti che vengono scientificamente introdotti, fuorvianti e irrilevanti rispetto al tema di cui si parla, sempre agitando le paure e banalizzando patologie che esistono ed esisteranno sempre. Ma nessuno sogna di togliere le pistole alla polizia perché ogni tanto qualcuno perde la testa.