Della lunga e intrigante seduta del Senato che ha risparmiato il guardasigilli Alfonso Bonafede è più facile indicare le vittime che i vincitori perché, obiettivamente, le brutte figure hanno prevalso sulle buone. E ciò a cominciare dalle opposizioni, che sono riuscite a elidersi a vicenda con due mozioni di segno opposto impietosamente denunciato, col suo accento inconfondibile, dalla elegante senatrice altoatesina Julia Unterberger. Che ha pronunciato la sua dichiarazione di voto contrario affiancata non a caso da quella volpe di Pier Ferdinando Casini palesemente consenziente, pur avendo egli pronunciato nella discussione un discorso non proprio esaltante per il pur vincente ministro della Giustizia.

A Bonafede l’ex presidente della Camera aveva contestato non tanto l’azione di governo rimproveratagli dalle opposizioni quanto la “difesa dissennata” riservatagli dal senatore pentastellato Marco Pellegrini.

Che lo aveva preceduto avvolgendo nell’” eroismo” il ministro, giunto a quel posto dopo una lunghissima sequenza di inetti nella migliore delle ipotesi, di criminali nella peggiore. Il centrodestra, per tornare all’opposizione, ha chiesto la sfiducia considerando Bonafede troppo poco giustizialista e severo con i detenuti, avendo lasciato uscirne un bel po’ per paura del coronavirus prima di intervenire con due decreti legge per riportarli dentro, o troppo poco, anzi per niente garantista secondo la senatrice Emma Bonino. Che è tornata a intitolare in aula la sua mozione a quella vittima emblematica della cattiva giustizia che fu Enzo Tortora.

Curiosamente - anche questo ha fondatamente sottolineato la senatrice altoatesina - i forzisti berlusconiani sono riusciti a dividersi nelle firme fra l’una e l’altra mozione derogando all’aurea contrarietà originariamente vantata alla sfiducia “individuale”, subìta per primo nel 1995 da un ministro della Giustizia ipergarantista come si rivelò Filippo Mancuso. Sarebbe stato forse opportuno, per Berlusconi e i suoi senatori, risparmiarsi la deroga e rimanere alla finestra.

Altre due vittime del passaggio parlamentare su Bonafede sono stati, per motivi diversi e persino opposti, Matteo Renzi e Giuseppe Conte. Il primo si è esibito come un acrobata, più che come un leader, annunciando e motivando il no alle mozioni dopo averle difese dalla “strumentalità” contestata dai grillini, dal Pd e dalla sinistra dei liberi e uguali.

Perché mai allora il capo di Italia Viva ha aiutato il guardasigilli a uscire indenne dalla seduta? Per fiducia, rispetto politico e quant’altro nei riguardi del presidente del Consiglio, ha spiegato Renzi ricordandone recenti aperture al suo partito e le dimissioni sostanzialmente minacciate, con la conseguente crisi, nel caso in cui Bonafede fosse stato sfiduciato.

Da una partita contro il guardasigilli e il suo movimento, prodigo peraltro di mozioni di sfiducia individuale contro i ministri del suo ormai lontano governo, fra il 2014 e il 2016, quella di Renzi è diventata pertanto una partita personale, per ora a buon fine, col presidente del Consiglio. Del quale - avrò sbagliato con quella malizia che Giulio Andreotti si perdonava dicendo che riusciva ad “azzeccarci”- mi è sembrato di cogliere sul viso, seduto ai banchi del governo in mascherina e con le dovute distanze di sicurezza antivirale, un certo imbarazzo. Non a caso, forse per limitare la forza di quell’abbraccio metaforico, Conte ha poi rilasciato una lunga intervista al Foglio proponendo “un patto con le opposizioni”: quasi un cavalcavia sulla testa di Renzi.

Un altro imbarazzo sul volto di Conte l’ho colto alla conclusione del discorso, per conto del Pd, del senatore Franco Mirabelli, difensivo di Bonafede ma fermo nel chiedere una “discontinuità”, finalmente, nella gestione della politica della giustizia dopo il lascito del precedente governo gialloverde. Cui Mirabelli ha rimproverato anche la fine della prescrizione all’esaurimento del primo grado di giudizio, prima ancora di una riforma del processo penale per garantirne tempi certi e davvero “ragionevoli”, come vuole la Costituzione.

A proposito di quest’ultima, non dico che il passaggio parlamentare su Bonafede, per carità, l’abbia strapazzata al punto da fare inserire tra le vittime addirittura il presidente della Repubblica. Ma dubito, francamente, che si sia avuto molto riguardo per Sergio Mattarella fuori e dentro l’aula del Senato enfatizzando una crisi di governo nel caso di sfiducia pur individuale al guardasigilli.

Una crisi si sarebbe pur aperta se davvero il presidente del Consiglio si fosse dimesso sotto la spinta e la protesta dei grillini, di cui il guardasigilli è capo della delegazione al governo.

Ma sarebbe stata tutta da vedere e verificare la reazione del capo dello Stato. Che avrebbe potuto prenderne atto e aprire le rituali consultazioni, ma anche decidere il rinvio del governo dimissionario alle Camere per mettere davvero alla prova la caduta del rapporto fiduciario fra il Parlamento e il governo, al di là della persona del guardasigilli.

D’altronde lo stesso Renzi, una volta terminata la seduta del Senato, in una intervista a Repubblica ha detto che pur di evitare le elezioni anticipate “in questo Parlamento la maggioranza si forma in un quarto d’ora”. E’ ciò che avvenne già nell’estate scorsa, d’iniziativa dello stesso Renzi, dopo la caduta del governo gialloverde.