La sentenza n. 10 del 31 gennaio 2020 ha posto la parola fine al referendum “manipolativo” in materia elettorale. E non poteva essere diversamente, tenuto conto dei precedenti della Corte in materia di referendum abrogativo ex art. 75 Cost. e della complessità del quesito che sarebbe stato proposto agli elettori, la cui enunciazione occupa oltre sei pagine della sentenza.

È noto che le leggi elettorali possono rientrare tra quelle sottoposte a referendum abrogativo perché la Corte Costituzionale con la sentenza n. 47/ 1991 con la quale fu dichiarato ammissibile il c. d. “referendum Segni” respinse la tesi secondo la quale esse sarebbero implicitamente ricomprese nell’elenco dell’art. 75 Cost., in forza di un emendamento aggiuntivo approvato dall’Assemblea Costituente, ma per omissione non introdotto nel testo finale della Costituzione, e ciò per la decisiva ragione per la quale conta soltanto il testo definitivo di essa, come promulgato e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale.

Dunque il referendum abrogativo è astrattamente ammissibile anche per le leggi elettorali, ma, come dimostra la costante giurisprudenza costituzionale in materia, deve tenere conto in primo luogo della loro particolare natura, in quanto “costituzionalmente necessarie” e quindi debbono essere immediatamente auto- applicative, cosicché la loro abrogazione parziale deve comunque consentirne l’immediata applicazione.

Allo stesso tempo, secondo la Corte, benchè siano ammissibili anche le operazioni di ritaglio di frammenti normativi e di singole parole, ciò può avvenire soltanto ove la proposta di abrogazione parziale non si trasformi in una proposta all’elettore che viene ad alterare l’originaria ratio delle disposizioni oggetto del quesito referendario.

Infatti, in questo caso saremmo in presenza di un uso sviato dell’iniziativa referendaria, che verrebbe ad assumere natura “surrettiziamente propositiva”, non prevista dalla Costituzione nel nostro sistema, ove la partecipazione popolare all’iniziativa legislativa può avvenire soltanto nelle forme dell’art. 71, mediante la proposta di legge da parte di almeno cinquantamila elettori.

Date queste premesse di ordine costituzionale, la sorte del referendum Calderoli non poteva che essere segnata e per ritenerlo ammissibile la Corte Costituzionale avrebbe dovuto ribaltare tutta la sua univoca giurisprudenza in materia. Intanto, eravamo in presenza di un quesito di notevole complessità, in realtà incomprensibile da parte degli elettori, se non attraverso la sua intitolazione compiuta ad opera dell’Ufficio Centrale per il Referendum presso la Corte di Cassazione. Ma soprattutto, la legislazione elettorale che sarebbe residuata dall’approvazione da parte del corpo elettorale del referendum non sarebbe stata in alcun modo auto- applicativa, perché il legislatore avrebbe dovuto conseguentemente rideterminare i collegi uninominali di Camera e Senato.

Questo era il problema insuperabile da parte dei Consigli Regionali promotori. Essi hanno tentato di eluderlo con un espediente che ha reso a fortiori inammissibili i quesiti referendari, ma che non poteva sfuggire alla Corte Costituzionale.

E cioè quello di includere tra essi anche la richiesta di abrogazione parziale della legge delega n. 51 del 2019, il cui oggetto è rappresentato dalla modifica dei collegi uninominali e plurinominali esistenti, in applicazione della legge elettorale attualmente vigente - il c. d. Rosatellum- da attuarsi oggi all’esito del referendum confermativo sul taglio dei parlamentari.

L’intervento abrogativo sulla legge delega - secondo i promotori - ne avrebbe sostanzialmente modificato il suo oggetto, eliminandosi ogni riferimento all’interno di essa ai collegi plurinominali, modificando le condizioni temporali per l’esercizio della delega e quindi sostituendone per via abrogativa i corrispondenti principi e criteri direttivi, ma la Corte ha respinto questo artifizio, perché ha rilevato che in questo modo si sarebbero alterati gli stessi “caratteri somatici” della legge di delegazione.

Secondo la Corte, quindi, proprio l’intervento parzialmente abrogativo sulla legge delega ha avuto la conseguenza di rendere ancora più manifesta tale manipolazione. Ma le censure della Corte non finiscono qui: ne verrebbe modificato anche il dies a quo per l’esercizio della delega, fissato al momento dell’entrata in vigore della legge costituzionale sul taglio dei parlamentari, cosicchè la delega da condizionale diverrebbe “stabile”, ed anzi potrebbe doppiarsi. Rileva infine la Corte che l’eventuale scioglimento delle Camere imporrebbe il rinvio del referendum per l’art. 34 della legge 352 del 1970 e ciò esaurirebbe la delega stessa. Queste riflessioni della Corte, che rendono obbligata la sua conclusione circa il carattere “eccessivamente manipolativo ” del referendum Calderoli, in realtà disvelano quale era il vero scopo dell’iniziativa referendaria, ossia tendere ad ottenere per questa via quello scioglimento anticipato delle Camere, non raggiunto con la crisi della maggioranza governativa dell’agosto 2019.

Infatti, gli stessi Consigli Regionali promotori avevano ben chiaro che il referendum abrogativo sul Rosatellum non poteva essere ammissibile, proprio perché ne sarebbe conseguita in caso di accoglimento una legislazione elettorale non autoapplicativa. La conclusione che se ne può trarre è che vi sono dei limiti obiettivi di natura costituzionale all’ammissibilità dei referendum in materia elettorale, anche se essi non rientrano tra quelli vietati dall’art. 75 Cost. Ma soprattutto, ne esce ancora una volta sconfitto il tentativo di una forza politica, che attualmente dispone del 30 per cento dei voti, di trasformare tale “pacchetto” in una maggioranza di governo autosufficiente, dimenticando che il maggioritario ad un turno è storicamente proprio dei sistemi politici bipartitici, ma funzionerebbe malissimo in un sistema tripolare”, come anche l’esperienza ventennale del Mattarellum e delle relative instabili coalizioni ha confermato.