La sentenza della Corte di Cassazione francese con la quale è stata negata l’estradizione di dieci ex terroristi – qualcuno li definisce semplicemente “ex militanti” - ha confermato quanto già espresso dalla Chambre de l'Instruction in primo grado. «Un orientamento che non ha nulla a che fare con una presunta antinomia o antipatia dei francesi nei confronti di noi italiani», dice al Dubbio Alessandro Gamberini, difensore dell’ex militante di Lotta Continua, Giorgio Pietrostefani, condannato in Italia come uno dei mandanti dell'omicidio del commissario Calabresi.

Avvocato Gamberini, la sentenza della Corte di Cassazione francese mette la parola fine alla vicenda degli ex terroristi che da anni vivono in Francia. Una decisione prevedibile?

La sentenza della Cassazione francese era attesa da me con grande tranquillità. Ero perfettamente tranquillo rispetto al fatto che la Suprema Corte avrebbe aderito ad una sentenza dei giudici di merito, ritenendola non in violazione di principi e non in violazione di legge. Una decisione che aveva già dato conto delle ragioni per le quali l’estradizione non poteva essere concessa. Le ragioni dei giudici francesi poggiano su molti elementi, ma uno diventa il principale e va sempre sottolineato.

Quale?

La Francia aveva dato a tutte le persone, per le quali poi si è espressa la Suprema Corte, ospitalità, asilo, nel senso che loro non vivevano da latitanti. Erano tutti perfettamente a conoscenza delle sentenze di condanna avute in Italia. Si può discutere sull’opportunità della ospitalità. Ma il tema non era più quello. Nel momento in cui viene concessa ospitalità e le persone vivono per oltre trent’anni in Francia, tranquillamente, alla luce del sole, costruendo delle famiglie non possono essere considerate dei pacchi postali. La ragione di fondo era il rispetto anche dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che tutela la personalità. Le ragioni non potevano retroattivamente rimproverare la scelta di asilo, discutibile perché riferita a soggetti condannati, con una espressione triste, per “crimini di sangue”, ma nel momento in cui viene fatta non può essere ribaltata improvvisamente e lacerata da una decisione di trent’anni dopo.

Dunque, la sentenza della Cassazione francese è stata coerente?

Sì, anche se ha destato scandalo per i soliti noti. Mi riferisco a coloro che non fanno i conti con i principi giuridici che sostengono certe scelte. Non ci troviamo di fronte ad una irriducibile antinomia o antipatia da parte dei francesi nei confronti del sistema italiano. È il frutto di una presa d’atto di una situazione che andava chiarita una volta per tutte. Molte cose sono state dette senza riflettere, con una, come la definisco io, “cialtroneria comunicativa” davvero ripugnante. I nomi delle persone che si sono trasferite in Francia sono stati messe in unico calderone con la definizione per tutti, senza distinzione, di “terroristi delle Br”. Tra questi Marina Petrella e Giorgio Pietrostefani. Il mio assistito, Pietrostefani, non è mai stato un terrorista. È stato condannato per un omicidio politico, che, a mio avviso, non ha commesso, facendo confusione sulla storia degli anni Settanta molto più articolata di quanto la si voglia presentare.

I familiari delle vittime degli “anni di piombo” hanno chiesto e chiedono giustizia. È un loro diritto…

Il diritto penale ha una tutela dei diritti umani su due versanti. Uso a tal riguardo dei termini non proprio tipici dei penalisti, che invece parlano di tutela dei beni giuridici. I diritti umani calpestati sono certamente quelli riferibili alle vittime, alle persone uccise, alle persone colpite in vario modo. Una tutela dei diritti umani la troviamo, però, anche per colui che viene attinto dallo strumento della privazione della libertà, che comporta una situazione lesiva della personalità. Abbiamo, dunque, una tutela “col” diritto penale e una tutela “dal” diritto penale. Questo, è a mio avviso, un passaggio importante. Nel momento in cui le tutele in gioco sono due, occorre capire come poterle contemperare. In mezzo troviamo un discorso che riguarda il decorso del tempo. Una variabile che fatica a essere elaborata dalle vittime, da coloro che hanno subito un danno a volte irreparabile. Il decorso del tempo deve essere messo in gioco anche sull’altro versante e sposta tutto. Se io ho commesso un omicidio a metà degli anni Settanta e sono passati cinquant’anni, la pena abbandona ogni parvenza rieducativa. Si manifesta solo come vendetta simbolica nei confronti di persone anziane.

Ha sentito, dopo la sentenza della Cassazione francese, Giorgio Pietrostefani?

Sì, ci siamo sentiti. Lui è molto malato. Ha subito diversi trapianti e si trova in uno stato di grandissima fragilità. Pietrostefani viene definito un “terrorista delle Br”, secondo la “cialtroneria comunicativa” di cui parlavo poco fa. Abbondano, quindi, gli stereotipi. Il processo e la condanna per l’omicidio Calabresi ha avuto un itinerario e un esito che, secondo me, non è un esempio di esercizio di buona giurisdizione. Non si dica che le condanne sono sempre un accertamento plausibile dei fatti. La condanna di Pietrostefani per l’omicidio Calabresi giunse all’esito di sette-otto processi rovesciati, poi annullati. Ricordo pure che il collaborante Leonardo Marino per dieci giorni e dieci notti fece colloqui con il responsabile dell’epoca dell’antiterrorismo di Milano. La condanna di Pietrostefani giunse tenendo conto di un meccanismo costruito. Non mi ha mai appagato, perché frutto di un esito indecente fondato sul niente.

Gemma Calabresi, vedova del commissario Luigi Calabresi, si è detta offesa dalla motivazione della Suprema Corte d’oltralpe. Una ferita che rimane aperta?

Provo del tutto assurdo che si possa misurare il dolore o anche l’aspettativa di giustizia con la sentenza della Corte francese. Parliamo di due livelli totalmente inadeguati. La vedova Calabresi ha il suo parere, io ho la mia valutazione dei fatti che si verificarono alla fine degli anni Sessanta. Mi riferisco alla tragica fine di Pinelli. Una vicenda che non ha mai trovato soluzione, che non ha trovato mai pace, che non ha mai trovato una giustificazione e che, badiamo bene, non legittima affatto l’uccisione di una persona. Mi meraviglio che ci si possa sentire offesi da una sentenza della Cassazione francese dalla quale deriva la presa d’atto di una vicenda che non può più trovare una soluzione attraverso un meccanismo coercitivo e carcerario. Sono trascorsi oltre cinquant’anni anni.