Il Corriere della Sera racconta la storia di Lorenzo S., oggi 47enne, pluripregiudicato, la cui storia viaggia “a braccetto” con il carcere, nel quale finì per “soggiornare” già a dieci giorni dalla sua nascita, quando fra le braccia della madre andò a trovare nella casa circondariale di San Vittore a Milano, il padre. La sua, tuttavia, è stata una vita complicata, tumultuosa, vissuta tra la cella e la strada.

«Lorenzo - scrive il CorSera - aveva appena 12 anni quando compì la sua prima rapina; ne aveva 14 quando cominciò a rubare le Fiat 500 usando le chiavette apriscatole della carne Simmenthal; ne aveva 15 quando finì al Beccaria, istituto penale per minorenni. Uscitone dopo un anno e 10 mesi, era pronto per una carriera criminale che lo fece diventare il Milanese e al cui confronto quella paterna sbiadisce: un numero imprecisato di rapine, 5 arresti, almeno 25 processi e altrettante condanne («dovrei vedere il certificato del casellario giudiziale, ma l’ho sepolto in cantina»), per un totale di 57 anni e 6 mesi di reclusione, che in Italia non si possono neppure scontare per intero, giacché la pena massima, se non scatta l’ergastolo ostativo, si ferma a 30 anni».

Il quotidiano di via Solferino lo ha intervistato, visto che oggi Lorenzo S. è un uomo libero, dopo aver passato la sua vita tra i penitenziari di Milano, Cuneo, Alba, Novara, Matera, Alessandria, Catania, Bari, Piacenza, Bologna, Ravenna, Ferrara, Torino. «“Al Due Palazzi” di Padova ha trovato la sua redenzione, quella che ne ha fatto un mediatore penale e sociale esperto in giustizia riparativa, narrata nel libro Io ero il Milanese (Mondadori), appena uscito, e ben compendiata da un brano dell’evangelista Giovanni in quarta di copertina, benché lui si dichiari ateo: “La luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno mai vinta”. Lo ha scritto con Mauro Pescio, autore e attore che ne aveva tratto un podcast di successo in 14 puntate per Rai Play Sound» si legge nell’articolo pubblicato su Corriere.it.

A Padova, Lorenzo S. ha conosciuto «il serial killer Donato Bilancia, e il capo delle Bestie di Satana, Nicola Sapone, condannato a due ergastoli, e Alberto Savi, uno dei fratelli della Uno bianca, la banda che uccise 24 persone e ne ferì 102».

«Sono nato al Giambellino, a Milano. Vedevo mio padre a San Vittore un’ora a settimana, quattro volte al mese. Mi aveva fatto credere che era elettricista là dentro». La verità, però, gliela disse «Pino, suo fratello. Aveva avuto anche lui guai con la giustizia. Piansi fino a sera. Mi sentivo tradito. Mia madre faceva le pulizie, lo zio ci aiutava economicamente. Mi mise nel Convitto nazionale Longone. I compagni di classe m’indicavano la prigione dalle finestre e ridevano: “Ecco dov’è rinchiuso tuo papà”».

Quando il padre uscì di galera, Lorenzo S. non gioì. «In casa spadroneggiava, ficcava il naso in camera mia, mi vietava di giocare per strada. Ci portò a vivere nella sua città natale, Catania, dove al rione Librino scoprii di avere tre fratelli nati dalla relazione con un’altra donna. Il primo aveva 7 anni più di me. Legai con Giovanni, quasi mio coetaneo. Fu lui a ribattezzarmi il Milanese. Nei quartieri malfamati, da San Cristoforo a San Berillo, ho tuttora quel nomignolo».

E così racconta i primi passi da criminale, insieme a Giovanni. «Rapinammo 80.000 lire a un fruttivendolo. Ma prima rubammo un go-kart: avevamo sentito che serve un’auto per la fuga... Quella stessa sera, il negoziante si presentò a casa nostra. Mio padre gli restituì i soldi e mi massacrò di botte. Mi ritrovai a testa in giù, tenuto per i piedi».

In quel momento, Lorenzo S. si ispirava a «Renato Vallanzasca. La mafia avrebbe voluto affiliarmi. Non ci riuscì. Per vendetta, prese a sventagliate di mitra le vetrine della cartoleria di Teresa». Il giorno più brutto della sua vita? «Quando morì mio figlio. Non sono mai stato sulla sua tomba e neppure su quella dei miei genitori». Per quale motivo? chiede il giornalista del Corriere della Sera: «Sono sepolti a Catania. Ma io non voglio tornare in Sicilia, dove per tutti resto il Milanese. Da otto anni ho tagliato i ponti con i miei fratelli. Avvertivo che erano ancora invischiati in brutti giri. Mi spiace soprattutto per Giovanni, vorrei tanto che si rifacesse una vita».

In carcere ha passato vent’anni. «L’avvocato d’ufficio, Maurizio De Nardo di Torino, mi fece ottenere la continuazione dei reati. Fu ricalcolata la pena a partire dal primo arresto: risultò che l’avevo già ampiamente scontata. Il 19 luglio 2017 fui scarcerato». Oggi invece si occupa di giustizia riparativa. «Merito della giornalista Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, volontaria nel carcere Due Palazzi. Mi ha inserito nella redazione. Nel 2018 ho aperto a Padova il Centro per la mediazione sociale e dei conflitti, con l’aiuto del criminologo Adolfo Ceretti, il mio formatore, e dell’avvocata Federica Brunelli, giurista. Faccio incontrare i carnefici con chi ha patito i reati da loro commessi, per esempio con Agnese Moro, con Manlio Milani, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di piazza della Loggia, con Giorgio Bazzega, figlio del maresciallo Sergio Bazzega, ucciso dal brigatista Walter Alasia». E prende uno stipendio di mille euro al mese.

Secondo Lorenzo S., infine, il carcere non dovrebbe essere abolito. «Non li sostituirei. Vorrei solo che si evitasse di segregarvi i tossicodipendenti, i malati psichici, le persone con disagi, i delinquenti non abituali. La detenzione non fa altro che aumentare il desiderio di riabbracciare il crimine».