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IVAN SCALFAROTTO ITALIA VIVA
«Quello che sta accadendo non riguarda solo una vicenda giudiziaria, ma l’integrità stessa delle istituzioni europee e italiane. Quando la giustizia diventa un’arma politica, quando l’immunità parlamentare viene trattata come un privilegio personale anziché come una garanzia per la democrazia, stiamo minando i fondamenti su cui si regge la nostra libertà». A dirlo è Ivan Scalfarotto, senatore di Italia viva, che commenta l’inchiesta che ha svelato la costruzione mediatica dietro il presunto Qatargate.
L’inchiesta della procura belga svela quello che sembra un vero e proprio sistema mediatico dietro l’indagine che ha sconvolto il Parlamento europeo. Che idea si è fatto?
La giustizia prevede forme e procedure che non sono meri formalismi: costituiscono il cuore stesso della civiltà giuridica. Nelle indagini possono emergere elementi che appaiono univoci, ma gli ordinamenti democratici pretendono un processo proprio perché ciò che sembra evidente deve essere sottoposto al contraddittorio tra le parti. Il problema principale di questa indagine è che, col tempo, ha perso credibilità. Al di là degli elementi emersi all’inizio, a tre anni dagli arresti non abbiamo ancora una sentenza. Nel frattempo, le persone coinvolte hanno subito una gogna mediatica che ha distrutto la loro vita personale e sociale, oltre a pressioni per indurle a confessare. Ricordo che all’allora vicepresidente del Parlamento europeo Eva Kaili fu impedito persino di incontrare sua figlia: un fatto che dovrebbe ripugnare a qualsiasi cittadino europeo. Questo modo di fare indagini non ha credibilità. Voglio ricordare che il giudice Michel Claise, colui che istruì il Qatargate, ha poi dovuto lasciare l’indagine per conflitto di interessi, dal momento che suo figlio è in affari con il figlio di un’indagata. Se si mettono insieme tutti gli elementi - l’indagine sull’anticorruzione, la vicenda che ha riguardato Claise e il fatto che dopo tre anni le indagini non sono nemmeno chiuse, nonostante le borse coi soldi in casa e le condanne inappellabili espresse sui giornali -, dobbiamo riconoscere che è stata minata anche la credibilità delle istituzioni europee. Un fatto gravissimo, soprattutto nel contesto geopolitico attuale, perché c’è chi ha interesse a indebolirle. A distanza di tre anni, non abbiamo una corte indipendente che sia stata in grado di dirci se esiste o meno un Qatargate.
Nei giorni scorsi la giustizia belga ha di nuovo preso di mira degli italiani, con la vicenda del Collegio europeo che ha coinvolto l’ex Alta rappresentante Federica Mogherini. Ritiene che ci sia un accanimento contro la politica europea?
Rispetto a queste vicende invito tutti alla massima cautela. E tutti dovrebbero averne: abbiamo notizie mediate dalla stampa e sarebbe buon senso per la politica non commentare indagini in corso e in fase iniziale.
Pochi giorni fa la Commissione Juri ha votato per la revoca dell’immunità dell’eurodeputata dem Alessandra Moretti, finita anche lei nel tritacarne di questa inchiesta, nonostante gli elementi siano risibili. Questo caso avrebbe dovuto essere un monito, dopo le condizioni in cui Kaili e gli altri sono stati tenuti in carcere, ma così non è stato…
Le immunità non tutelano il singolo parlamentare, ma l’organo elettivo, cioè la sovranità popolare. Servono a garantire che il rappresentante del popolo possa agire senza pressioni e senza condizionamenti da parte del potere giudiziario. Nel caso Moretti la Commissione del Parlamento europeo ha assunto decisioni molto diverse rispetto al caso Gualmini: mi auguro non abbiano prevalso valutazioni politiche più che elementi oggettivi.
C’è un altro elemento: il rapporto opaco tra stampa e procure, visto che i giornalisti, stando all’inchiesta, erano a conoscenza dei dettagli dell’inchiesta il giorno prima che venisse eseguito il blitz, tanto da poterne scrivere in anticipo. C’è un problema?
Questa questione riguarda la stampa e la presunzione d’innocenza. Il tritacarne mediatico può distruggere la reputazione di una persona in modo irreversibile: l’alone del sospetto è difficilissimo da cancellare. Una stampa che si limita a pubblicare le “veline” di una procura, italiana o straniera, contribuisce a creare un pregiudizio devastante e spesso irreparabile.
Che cosa dovrebbe fare ora la politica?
Dovrebbe difendere con orgoglio l’istituto dell’immunità, non come un privilegio, ma come una prerogativa essenziale della democrazia. Senza questa garanzia, viene meno la libertà del mandato parlamentare e quindi la libertà delle assemblee. Bisogna essere meno timorosi, perché queste prerogative appartengono innanzitutto agli elettori: servono a tutelare il loro diritto a essere rappresentati senza che il loro rappresentante sia sottoposto a pressioni o minacce giudiziarie. Ma c’è anche un compito collettivo, in cui rientra la responsabilità della stampa: ricordare sempre che, fino alla sentenza, le indagini rappresentano soltanto la tesi dell’accusa, non la verità giudiziaria. Faccio un esempio da cittadino milanese: la mia città vive da mesi un blocco amministrativo fondato su una ricostruzione, rispettabile, certamente, offerta dalla procura, ma che davanti ai giudici, fino alla Cassazione, non sta reggendo. Eppure quella ricostruzione ha già prodotto effetti politici, giuridici ed economici reali. È inaccettabile che l’amministrazione di una città venga paralizzata come se l’accusa fosse già stata provata. Dobbiamo essere tutti più rispettosi della presunzione d’innocenza. Fino a quando un giudice terzo non si pronuncia, l’accusa resta una tesi, non un fatto.


