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Come abbiamo fatto a liberarci dell’uomo del “whatever it takes”, l’uomo che ha salvato l’Euro e forse l’Europa? Difficile trovare una ragione politica credibile. Certo, c’è la crisi irreversibile dei 5Stelle che ha trasformato Giuseppe Conte, un ex presidente del consiglio (sic!), in una mina vagante pronta a esplodere da un momento all’altro. E poi la voglia di elezioni del centrodestra, ansiosa da tempo di raccogliere quel che i sondaggi promettono da mesi e mesi. Infine l’ambiguità del Pd. Un Pd che da un lato ha sostenuto lealmente Draghi e dall’altro ha continuato a intrattenere “relazioni pericolose” con i grillini, ovvero con coloro che da mesi preparavano la fuga dal governo convinti di poter portare a casa il colpaccio schivando le urne. E in effetti è assai singolare, e assai poco credibile, che un partito che ha governato prima con la Lega, poi con i dem e infine con entrambi (ingoiando ogni cosa), decida di “sfiduciare” Draghi a causa di un inceneritore. No, il Movimento ha preparato da mesi l’uscita di scena, e l’ha fatto sotto gli occhi del Pd. Eppure tutto questo non basta a spiegare quel che è accaduto ieri in Senato. C’è una sorta di vocazione al suicidio, un istinto masochista che agisce nel nostro paese ogni qual volta provi a rialzare la testa. È una pulsione che riemerge in modo ricorrente e che, per la verità, sembra aver colpito lo stesso Draghi. Non v’è dubbio infatti che in questi ultimi giorni il maggior alleato dei grillini contro Draghi è sembrato Draghi stesso. Il quale ha deciso di drammatizzare una crisi che di certo poteva essere gestita in modo molto diverso. I motivi per cui il premier ha scelto questa strada sono davvero poco chiari. Tanto che qualche maligno ha avanzato l'ipotesi che Draghi fosse in cerca da tempo di una exit strategy, di un pretesto per mollare tutto come uno Schettino qualsiasi. E anche ieri mattina, nel corso del suo primo discorso al Senato, l'impressione era quella di un premier indisponibile a qualsiasi tipo di concessione. Tanto che a tratti si è lasciato andare a stonature e sgrammaticature istituzionali sorprendenti, sedotto anche lui dalle derive dell’antipolitica. Si è lasciato andare a una stonatura, per dirne una, che ha avuto lo stesso “sgradevole” effetto delle unghie sulla lavagna. Un effetto, come spiegano gli studiosi, dovuto al superamento del limite di frequenze acustiche tollerato dagli uomini. Ecco quel limite ieri Mario Draghi lo ha superato quando ha contrapposto il volere dei cittadini a quello del Parlamento. Quasi che i due attori fossero contrapposti: «Sono qui - ha infatti detto Draghi - perché gli italiani me lo hanno chiesto, la risposta a tutte le domande non dovete darla a me ma a tutti gli italiani». Replica di Pierferdinando Casini: «Presidente lei è qui non solo perché glielo hanno chiesto gli italiani, ma perché il parlamento non le ha mancato la fiducia». Intendiamoci, chi scrive - e credo di poter parlare anche a nome del buon Casini - è convinto che quello di Draghi sia stato il governo più importante della seconda Repubblica. Di più: per carisma, preparazione, coraggio e capacità visionaria, Draghi è stato il valore aggiunto che probabilmente ha salvato l’Italia da una crisi economica e sociale che avrebbe potuto metterci in ginocchio. Ciò non toglie che le nostre istituzioni, dal Parlamento al Colle, non sono fastidiosi ostacoli ma contrappesi che vanno rispettati e tenuti sempre in considerazione. Insomma, la scivolata di Draghi ci dice quanto in questi anni abbia scavato il virus dell’antipolitica, colpendo anche le élite più illuminate e preparate. Certo, la questione può apparire secondaria rispetto a ciò che sta accadendo in queste ore, eppure le due cose sono strettamente legate: se il premier avesse dato più dignità alle istituzioni e alla politica, forse, chissà, lui sarebbe ancora ben saldo a palazzo Chigi e noi tutti saremmo molto più tranquilli.