Sono passati quasi due mesi dalla fine del lockdown. La pandemia ha imposto la necessità di immaginare un futuro diverso e un nuovo modo di intendere le città. Il lavoro a distanza, che svuota i centri storici ripopolando le periferie, è solo una delle grandi transizioni innescate dalla pandemia. Che la Fase 2 sarebbe stata complicata e che l’economia sarebbe precipitata in modo vertiginoso, era noto ai più. Tuttavia ci sono attività lontane dal cuore delle città e dalle zone del turismo che, nonostante tutto, resistono. Negozi, locali, bar e ristoranti che stanno fatturando di più dell’anno scorso. Un fenomeno inatteso che a Milano trova la sua massima espressione.

Al contrario nel celebre Quadrilatero della Moda, orfano di turisti stranieri, il primo test della settimana di saldi anticipati ha dato risultati pessimi: 90% di incassi in meno. Mancano all’appello i soldi di russi, cinesi, brasiliani, arabi e se Milano appare vuota senza i turisti stranieri, nelle vie del lusso è pressoché deserta. La famosa Via della Spiga offre uno scenario particolarmente desolante con 18 boutique che hanno scelto di rimanere chiuse. Le stesse vetrine che, situate lungo marciapiedi sempre affollati, in tempi pre- Covid incarnavano la vera anima del quartiere ed erano le mete preferite degli amanti dello shopping. Dal canto suo, Via Montenapoleone cerca di resistere con tutti i negozi aperti ma la gente a passeggio è poca e la maggior parte delle persone entra ed esce dai prestigiosi atelier a mani vuote.

Spiega Carlo Capasa, Presidente della Camera della Moda, che la conclusione del primo semestre ha visto i grandi brand dello Shopping District milanese chiudere i bilanci sotto del 30/ 40 percento. I portinai dei sontuosi palazzi del quartiere testimoniano il passaggio di un taxi ogni 5 minuti, il minimo storico per una zona che brulicava di auto lussuose e vetture con autista. Non solo i negozi ma anche i grandi alberghi e i ristoranti vivono con affanno il clamoroso calo dei consumi per effetto del lockdown.

Lo svuotamento dei locali intorno a piazza del Duomo e alle popolari vie della moda si contrappone a un fulmineo risveglio delle aree residenziali nei quartieri più periferici della città. A sbilanciare l’economia del centro urbano in favore dell’area metropolitana contribuisce l’improvvisa mancanza di tre pilastri fondamentali su cui Milano ha sempre potuto contare.

In primis il turismo internazionale e fieristico, con oltre 11 milioni di visitatori l’anno scorso. Secondariamente i pendolari del lavoro, con 1 milione - tra dipendenti privati e pubblici – di lavoratori in meno in circolazione e infine il temporaneo forfait degli studenti fuori sede che in questi mesi sono mancati all’appello ( circa 150mila persone). Il centro patisce, dunque, l’assenza di turisti e studenti, gli uffici vuoti e i canoni di locazione, già sproporzionati in periodi normali, che oggi sono assolutamente insostenibili. Molti cittadini, a causa dello smart- working, trascorrono più tempo a casa legandosi al territorio in cui vivono e diventando, a tutti gli effetti, dei “fruitori di prossimità”. Di conseguenza, per tutti i bar, le rosticcerie, le pizzerie e i ristoranti cresciuti all’ombra degli uffici nei grattacieli di City Life, Porta Nuova o Gae Aulenti, il lavoro agile si è rivelato una vera e propria sciagura con un calo degli affari che si attesta tra il 50 e il 75 percento. Al contrario, nei quartieri Bovisa, San Siro, Baggio, Casoretto, Barona, risaltano casi di eccezionale tenuta. Tutti gli esercenti che possono contare su una clientela residente sono attualmente avvantaggiati. Diverse centinaia di attività commerciali periferiche hanno già richiesto, e ottenuto, la concessione per l’occupazione del suolo pubblico e l’aumento delle aree pedonalizzate attraverso la procedura semplificata prevista dal progetto “Strade Aperte” incluso nel piano di ripresa strategico Milano 2020. Nel pieno rispetto delle norme sul distanziamento sociale le suddette concessioni prevedono la possibilità di allestire o ampliare dehors posizionando tavolini, sedie e ombrelloni su spazi urbani liberati quali strade residenziali, parcheggi, marciapiedi, zone verdi e piazzali di cui le aree periferiche dispongono molto più dei centri urbani. Intorno al 1950, nel mondo, poco più di 750 milioni di persone vivevano nelle città. Oggi questa cifra è cresciuta fino a superare i 4 miliardi. Più della metà della popolazione mondiale è concentrata nelle città e secondo la stima delle Nazioni Unite la cifra è destinata a raggiungere il 68 percento entro il 2050. Tale previsione risale però al periodo pre- Covid. In passato le opportunità di occupazione, ricchezza e istruzione hanno attivato l’esodo verso le città ma il mondo post- Covid potrebbe essere assai diverso con la tecnologia e la capacità di lavorare in remoto che spingono molte persone ad abbandonare gli agglomerati urbani. Il temuto prolungamento dello smart- working e la conseguente chiusura sistematica di uffici, enti e altre realtà, oltre ad atrofizzare i consumi, aumenta il rischio che interi quartieri modellati attorno al vasto afflusso di lavoratori possano definitivamente scomparire. Il giusto equilibrio potrebbe essere la modalità di lavoro flessibile con la possibilità di scegliere, previo accordo con l’azienda, quando essere presenti fisicamente preservando da un lato i benefici del lavoro a distanza ( minore inquinamento atmosferico, riduzione del consumo di carta e plastica, effetti sull’ambiente) e dall’altro tutelando i consumi e la crescita economica dei centri urbani.