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La storia di Morena Rapolla non si può riassumere in poche battute. È lei stessa, quando la raggiungiamo al telefono, a tentare di condensare in poche frasi un vissuto intenso, fatto di dolore e determinazione. «Mi ritengo una sopravvissuta - dice -. Sono riuscita a superare quel dolore che tiene ancora in ostaggio moltissimi ragazze e ragazzi. E ci sono riuscita soltanto aggrappandomi all’amore per lo studio, all’amore della mia famiglia». Morena è una avvocata transessuale, una delle prime in Italia a confrontarsi con il pregiudizio e gli stereotipi di chi la vorrebbe relegata ai margini della società. Oggi presiede l’Associazione Arcigay della Basilicata, si occupa di diritto civile e antidiscriminatorio, e colleziona un successo professionale dietro l’altro. Ma la sua storia inizia molto prima, almeno vent’anni fa. Come nasce il suo amore per il diritto? Il mio percorso inizia negli anni dell’Università, quando ancora ero Piero e mi animava quell’amore per il diritto che rappresenta il fil rouge tra il ragazzo che ero e la donna che sono oggi. Sono stati anni molto difficili. All’epoca non avevo ancora consapevolezza di essere una donna transessuale. La svolta è arrivata nel 2001, quando ho iniziato il mio percorso di transizione. Molti dicono che è stata una scelta coraggiosa. Ma la mia è una forza che nasce da una profonda disperazione. La disperazione di non riconoscersi, di sentirsi sbagliati. E vent’anni fa non c’erano ancora le strutture virtuose di supporto che abbiamo a disposizione oggi. Così misi in stand by la mia carriera universitaria per un po’. All’epoca avevo già sembianze femminili, ma sui documenti ero ancora Piero Rapolla. Non esisteva ancora il libretto Alias. Non c’era la giurisprudenza virtuosa introdotta dalla Cassazione nel 2015 che dà la possibilità alle persone transessuali di cambiare le proprie generalità anagrafiche anche senza sottoporsi all’intervento chirurgico di rettifica dei caratteri sessuali primari. Poi che accadde? Mi feci coraggio perché non volevo che Morena perdesse tutti i sacrifici fatti da Piero. Tornai all’università per fare gli ultimi tre esami e discutere la tesi di laurea. Per i primi due esami ebbi la fortuna di incontrare professori che mi valutarono per la mia preparazione. Non fu lo stesso per l’ultimo esame. Avevo sempre la sensazione che una ragazza transessuale dovesse dare il massimo, più degli altri, quasi a doversi discolpare di un’identità biologica non propria. Il giorno della discussione venni convocata in aula come Pietro Rapolla, ma riuscii a mantenere la calma e a laurearmi con un ottimo voto. Solo col tempo ho capito che fosse giusto che quel giorno, nell’aula, rimbombasse il nome di Piero, perché sono i suoi sforzi ad avermi portato dove sono. Non ho mai rinnegato il ragazzo che sono stato. I percorsi di transizione sono percorsi di grande sofferenza, perché non hai margini di scelta: o ti autodistruggi, oppure rimetti insieme il puzzle della tua esistenza. Dentro di me ho due cuori. E la mutata fisicità non cambia il proprio bagaglio esperenziale. Come si è avvicinata poi alla professione? Nel 2007 ho iniziato la pratica a Potenza, presso un’avvocata che mi spinse a “non tenere la testa sotto la sabbia”. Un po’ come una pioniera, entrai in tribunale con le generalità anagrafiche ancora al maschile. Notai una certa diffidenza tra i colleghi, ma non sono serviti grossi discorsi, sono bastati i fatti. Credo che l’altro debba essere educato alla tua diversità: bisogna far comprendere che siamo persone ed io ero lì per svolgere la professione. Così superai brillantemente anche l’esame da avvocato. E tutto il resto è storia: sono passati 11 anni e nel tempo ho raggiunto risultati professionali che io stessa non credevo di poter raggiungere. Ma sta soltanto a noi sdoganare certi limiti. Ha ancora qualche sogno in serbo per il futuro? Il mio sogno nel cassetto è diventare magistrato. E ci proverò con tenacia e caparbietà. Rispetto a vent’anni fa, quando ha iniziato, come è cambiata la società? La situazione è certamente migliorata. Ma sono ancora forti gli stereotipi e i pregiudizi nei confronti delle persone Lgbt. L’ultimo report Arcigay del 17 maggio ci dice che ogni 3 giorni c’è un’aggressione a sfondo omolesbobitransfobico. E parliamo soltanto di aggressioni portate ad emersione. Certo, oggi c’è una rete esperenziale e di associazionismo molto forte. Ma dal punto di vista legislativo c’è ancora molto da fare. Un’aggressione a sfondo omofobico è parificata a una aggressione per futili motivi. Non esiste un reato vero e proprio. E non possiamo sempre ricorrere alla giurisprudenza illuminata affinché questa sia la stampella stanca di un legislatore che da circa trenta anni sta cercando di dotare lo Stato italiano di una legge contro l’omotransfobia. Quali prospettive intravede? Mi piace molto l’impostazione del ddl Zan perché non pensa solo al momento punitivo, ma anche alla prevenzione. Alla creazione di case rifugio, di centri contro le discriminazioni. L’Unav ha già licenziato un bando nella primavera di quest’anno al quale abbiamo partecipato come Arcigay affinché anche la Basilicata, per la prima volta nella storia, possa dotarsi di un centro contro le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere. Qual è il pregiudizio peggiore col quale ha dovuto confrontarsi nel mondo del lavoro? Il dato di partenza è che vali meno degli altri. E, io inconsapevolmente, ho sempre cercato di dimostrare il contrario dando più degli altri. Poi ho deciso di non farlo più, ed è stata la scelta migliore. Perché nel momento in cui ti fai attaccare una sorta di etichetta, una sorta di bollino “dell’inferiorità”, allora finisci per crederci. Ma il punto è proprio questo: cambiare la società affinché nessuno si senta più in dovere di marchiarti con questa lettera scarlatta. La senatrice Cirinnà ha sollecitato maggiore cautela nei confronti delle persone transessuali che debbano mostrare i documenti insieme al green pass per accedere ad alcuni luoghi e servizi. Che ne pensa? È una preoccupazione che ha un fondamento. Ogni volta che una persona transessuale palesa, mostrando i documenti, la discrepanza tra il sesso anagrafico e la sua identità d’elezione si può generare una situazione fastidiosa. Si potrebbero immaginare delle cautele, delle tutele in più per preservare la persona transessuale, come è successo con il libretto Alias. Oggi ci sono tutti gli strumenti giuridici per adeguare la propria identità anagrafica al proprio sentire senza l’intervento chirurgico, e io consiglio a tutti di intraprendere questo percorso, secondo i propri tempi e con la dovuta cautela. Si tratta infatti di percorsi irreversibili e molto complessi: tanto il giudice, quanto l’avvocato che accompagna la persona in questo percorso deve saggiare la consapevolezza del proprio assistito.