Da diverse settimane assistiamo alla protesta che, d’Oltralpe, sta coinvolgendo in modo trasversale categorie di lavoratori e professionisti contro la riforma delle pensioni ideata da Macron.

Ed anche gli avvocati francesi, letteralmente spogliatisi delle vesti istituzionali, sono scesi in campo per non vedersi decurtare la pensione di una percentuale prossima al 30%. Li abbiamo visti gettare le toghe al cospetto del Ministro della Giustizia o nei tribunali, organizzare raduni in stile flash mob davanti ai palazzi giudiziari e, ancora, divulgare filmati fai da te per sostenere la giusta causa.

In Francia, la storia ce lo insegna, non manca certo lo slancio “rivoluzionario”. Ed ai nostri colleghi, la cui forza aggregativa è invidiabile, non possiamo che manifestare solidarietà per la sacrosanta battaglia che stanno combattendo, da una parte a difesa del proprio diritto ad una pensione accettabile e, dall’altra, a sostegno dell’interesse generale nel vedersi riconosciuto un minimo sostentamento in vecchiaia.

Ma se indubbiamente giusta è la lotta tesa a tutelare i propri diritti, quanto è più giusta, vien da chiedersi, la lotta per i diritti di tutti, senza distinzione alcuna di categoria? Mi riferisco, chiaramente, alla contestazione che noi avvocati penalisti abbiamo da tempo messo in atto contro gli interventi di riforma della giustizia, a partire dall’abolizione della prescrizione dei reati dopo la sentenza di primo grado, malauguratamente entrata in vigore il 1° gennaio di quest’anno. Non sono state sufficienti le ripetute iniziative promosse dalle camere penali: le reiterate astensioni dall’attività giudiziaria, i meeting nazionali con la partecipazione dei più autorevoli giuristi e, da ultima, la maratona oratoria organizzata a dicembre scorso non sono servite ad impedire l’abolizione dell’ultimo - pur se già esamine- baluardo rimasto a freno di un processo infinito.

Eppure, in occasione del passaggio in aula della proposta di legge Costa, gli avvocati penalisti scendono nuovamente in campo, con una manifestazione nazionale davanti al Parlamento che coinvolge anche l’eccellenza del mondo accademico, per contestare duramente lo scempio che si sta facendo dei diritti. La nostra ostinazione, oltre che innata, si fonda sulla consapevolezza che l’abolizione della prescrizione ha aperto la strada ad altre simili future barbarie giuridiche.

Basta scorrere alcune modifiche contenute nel ddl di riforma del processo penale, di evidente stampo davighiano, per comprendere la scelta politica di abbandonare definitivamente il modello accusatorio e, con esso, le garanzie del giusto processo: dall’estensione dell’art. 190 bis, comma 1, c. p. p. a tutti i processi, alla lettura in dibattimento degli atti della polizia giudiziaria, all’introduzione del giudice monocratico di appello con l’aumento dei casi di udienza non partecipata, alla previsione di sistemi di sospensione della prescrizione diversificati in base all’esito del primo grado.

Sono tutte proposte, queste, che, oltre a snaturare il principio di non colpevolezza, comprimono l’oralità e l’immediatezza del processo in favore della sua cartolarizzazione, elidendo le garanzie difensive per piegarle alle disfunzioni del sistema giudiziario. È l’effetto della perfusione, all’interno dell’ordinamento, del populismo tipico dei movimenti oggi in voga che, una volta al potere, dimenticano i limiti della legittimazione democratica in vista dell’interesse ideologico ed indeterminato del “popolo”.

Non è un caso che, nei regimi di stampo populista, gli assetti costituzionali siano sempre estremamente semplificati e che i diritti di libertà siano fortemente compressi. La prova che sia questa la direzione verso cui il Paese si muove sta nell’approvazione di leggi come la “spazzacorrotti” o il “codice rosso” che, già dalla definizione, alimentano l’idea che il nostro sia un paese fatto di corrotti e uomini violenti, ma non offrono strumenti idonei ad arginare concretamente la corruzione o la violenza di genere. E’ l’ideologia che, applicata al diritto penale, non può che produrre la dilatazione delle aree di rilevanza penale e l’inasprimento sanzionatorio come unica soddisfazione della comunità contro il singolo, percepito ormai come “presunto colpevole” sin dalla sua iscrizione nel registro degli indagati.

Contro queste derive, gli avvocati penalisti si sono schierati a favore di una battaglia prima di tutto culturale che riporti al centro del tema la persona, intesa da un lato come soggetto titolare di diritti costituzionalmente garantiti, non negoziabili e non abdicabili, e, dall’altro, più umanamente, come nostro simile, nostro consociato, prima che “presunto colpevole”.

Qualche battaglia in più, rispetto ai nostri colleghi d’Oltralpe, forse, la stiamo combattendo.

* Avvocato iscritto alla Camera Penale di Roma