Per mesi osservatori e cronisti politici hanno dileggiato - alcuni compostamente, altri meno - il vicepremier Luigi Di Maio ingessato nei suoi abitini blu e la cravatta, onnipresente, dello stesso colore. Il completo “da prima comunione” esibito dal capo politico dei Cinquestelle era descritto come simbolo della voglia di accreditamento ( un po’ grossier e un po’ generone 2.0), di un personaggio politico ritrovatosi a sorpresa alle prese col governo. In un anno di esecutivo gialloverde, all’azzurrino cerimoniale di Di Maio si è affiancato, sovrastandolo sia mediaticamente che soprattutto nell’immaginario collettivo, il torace nudo di Matteo Salvini con il corredo di infradito e bermuda. Rigorosamente di governo, ovviamente. Come i prêt- à- porter del gemello di maggioranza. Discettare se era meglio il primo o il secondo non ha molto senso. Tuttavia se l’offerta politica è sempre più determinata dall’immagine, non è insensato sostenere che sia Di Maio che Salvini ciascuno a modo suo, con gli abiti, le posture, gli atteggiamenti, cercano di avvicinarsi al loro elettorato, di rappresentarlo, confortarlo, motivarlo e rassicurarlo spiegando che così facendo e vestendo - o svestendo: è uguale - si ritrovano insieme nella categoria “uno di noi”, che notoriamente porta consensi e fidelizzazione. Se è così, però, il punto vero diventa un altro. E cioè che quelle due estetiche non rappresentano tutto il Paese, sono incomplete e per molti aspetti addirittura fuorvianti. Manca quel pezzo d’Italia, pari ormai alla metà degli aventi diritto, che a votare non ci va più proprio perché l’abitino per un verso e il villoso petto per l’altro hanno espugnato l’intero scenario, desertificando il resto. Mancano i milioni di cittadini che non si sentono statisti sol perché mettono una cravatta né redivivi Cola di Rienzo perché se la tolgono. Mancano i milioni di elettori che aspirerebbero a iniziative di governo volte a risolvere, almeno in parte, i mali atavici dello Stato di diritto, magari con meno enfasi comunicativa e più concretezza fattuale. Manca, in altri termini, quella fetta di italiani genericamente definita ceto medio: oggi impoverito, spaventato, incattivito ma non necessariamente regredito, che vorrebbe fidarsi ( se non affidarsi) ad una leadership politica capace di definire una strategia verificabile per riagganciare il treno della realtà staccando i vagoni delle promesse tanto mirabolanti e irrealizzabili, dei sogni a buon mercato che inflazionano l’eterna campagna elettorale italiana ma non indicano mai ricette possibili. È l’Italia di quelli che vorrebbero vedere crescere il Paese con qualche slogan di meno e qualche tonnellata di serietà in più.