Un piano straordinario per dare sostegno agli avvocati, per affrontare la crisi della professione. E poi una soluzione agli ostacoli creati dalla riforma Cartabia, l’impegno a colmare il gender gap e a inserire nel processo elementi di valutazione che ne evitino le storture. È questo il piano di Francesco Greco, neo eletto presidente del Consiglio nazionale forense, che ha una certezza: l’avvocatura deve essere protagonista del processo riformatore della giustizia e il suo ruolo va riconosciuto nella Costituzione. Proprio per questo, sulle riforme, non può limitarsi a dare pareri: «Il Cnf è un’istituzione, il suo ruolo deve essere riconosciuto».

Quali sono le sfide prioritarie per l’avvocatura?

Stiamo vivendo un momento di grande difficoltà e ci sono emergenze gravissime da affrontare subito. La prima riguarda gli effetti della riforma Cartabia, che crea grandissime difficoltà inserendo - sia nel processo civile sia in quello penale - insidie e percorsi ad ostacoli. Con i decreti attuativi dobbiamo cercare di attenuare questi effetti, che allontanano dall’obiettivo del giusto processo. Creare difficoltà all’avvocato significa crearle al cittadino: se l’esercizio della nostra professione viene reso difficile, come se fosse una caccia al tesoro che costringe sempre a tornare indietro, alla fine a pagare il conto sarà il cittadino. Un’altra cosa sulla quale voglio immediatamente dare un segnale è il gender gap. Oggi le colleghe guadagnano in media la metà degli uomini, dato che peggiora ulteriormente al sud, una cosa intollerabile sulla quale voglio intervenire.

Da cosa partirete?

La prossima settimana verrà pubblicato il rapporto annuale della Cassa forense. I dati certamente non sono incoraggianti. La fuga degli avvocati dalla professione continua e bisogna interrogarsi sulle ragioni. Un problema che non riguarda soltanto la cancellazione dagli albi, ma parte dal percorso di studi. Gli iscritti a giurisprudenza sono diminuiti drasticamente e questo vuol dire che le facoltà giuridiche hanno perduto appeal. Dobbiamo capire quale sia il problema, perché non si può pensare ad un futuro senza avvocati, magistrati e notai. La democrazia e la libertà si basano sulla tutela dei diritti e senza tale tutela si mettono in crisi i principi di democrazia e quindi di libertà. Dobbiamo intercettare le ragioni di questo fenomeno, che nasce dalla crisi dell’avvocatura. Ma quest’ultima, a sua volta, dipende dalla crisi della giustizia: il cittadino non riesce più ad avere una risposta alla sua domanda di giustizia e c’è sfiducia verso il sistema giudiziario, che induce i cittadini a rinunciare alla tutela dei diritti. E questo, in uno Stato di diritto, non è possibile.

Qual è la soluzione?

Inserire all’interno del processo dei meccanismi oggettivi di valutazione. Tutte le professioni e le attività produttive sono soggette ad una verifica, tranne la giustizia. Se un processo si svolge in modo inefficiente, dura anni per poi finire nel nulla, nessuno ne risponde. Non è un discorso di responsabilità civile, ma di valutazione dell’efficienza. Bisogna inserire nel processo indici che riguardano i tempi in cui i provvedimenti vengono adottati e la qualità degli stessi, elementi che ciascuno, compresi lo stesso magistrato e la parte, possono valutare.

La partita dei decreti legislativi sulla riforma dell’ordinamento giudiziario è una buona occasione, dato che le nuove norme prevedono il voto degli avvocati nei consigli giudiziari. Le toghe non sono però favorevoli.

La motivazione addotta dalla magistratura mi sembra inconsistente. Il timore che l’avvocato possa approfittarne per rivalersi sui magistrati è veramente infondato: l’avvocato esercita una professione e se “perde” una causa non ce l’ha con il magistrato, se tutto si è svolto nel rispetto delle regole. In secondo luogo, la percentuale di avvocati che partecipano ai consigli giudiziari è piccolissima: come può un singolo avvocato incidere negativamente sulla valutazione di un magistrato? Il vero motivo è che non si vogliono far conoscere i giudizi di professionalità, che sono sempre tutti favorevoli.

Quale sarà la vostra risposta alla crisi?

Vorrei chiedere uno sforzo straordinario a Cassa forense. So bene che è legata a vincoli molto complessi ed è sottoposta alla vigilanza di tre diversi ministeri - Giustizia, Mef e Lavoro -, che si traducono in strettoie molto complesse nella sua attività. Ma so di poter contare sulla collaborazione del presidente per pensare ad un piano straordinario in favore dell’avvocatura. Mai, dal dopoguerra ad oggi, gli avvocati hanno vissuto un momento così difficile. E quando ci sono le maggiori difficoltà le istituzioni devono fare la loro parte e individuare le soluzioni. L’obiettivo finale è dare una misura di sostegno agli avvocati.

Il ministero ha aperto dei tavoli di interlocuzione sulla riforma Cartabia con l’avvocatura. Che ruolo svolgerà il Cnf?

Siamo stati chiamati a farne parte, ma io vorrei che l’avvocatura istituzionale partecipasse alla redazione dei decreti attuativi, piuttosto che alla loro valutazione. Se sarà fatto saremo pronti a collaborare, altrimenti saremo costretti a dire che non ci sta bene. Nei giorni scorsi il ministro ha convocato un tavolo per la riforma del processo penale e ci ha chiesto di essere presenti. Ho qualche perplessità a partecipare: il Cnf vuole collaborare a 360 gradi con Nordio, per partecipare all’organizzazione della gestione dell’attività giudiziaria, però nel rispetto del ruolo. Se a quel tavolo si siedono le associazioni, che con grande merito - e ne siamo grati - si impegnano e portano avanti questioni e argomenti importanti, allora non andremo, fermo restando che tutte le volte che il ministro intenderà chiamarci per qualunque tipo di interlocuzione noi saremo disposti a discutere.

Nel suo programma c’è l’avvocato in Costituzione. È la strada per riaffermare il ruolo da protagonista dell’avvocatura?

È fondamentale. Oggi affrontiamo tantissime difficoltà legate a riforme sulle quali non abbiamo potuto esprimerci. Nordio sta dando un segnale, ma sono tante le riforme approvate sulle quali non abbiamo detto una parola. È anche colpa nostra: a volte - penso al caso del Jobs Act - siamo rimasti silenti. Il riconoscimento nella Costituzione del nostro ruolo ci aiuterebbe a poter puntare i piedi e dire se le riforme sono coerenti con il ruolo che la Carta ci riconosce e, dunque, se incidono su un diritto costituzionale. Oggi non è così. Ogni volta in cui si discuterà di diritti voglio che l’avvocatura prenda posizione e faccia di tutto per farsi sentire: il nostro ruolo è insopprimibile.