Gaia Tortora, vicedirettrice del Tg La7 e presidente onoraria del Partito Radicale, è da qualche giorno in libreria con “Testa alta, e avanti” (Mondadori, pp. 145, euro 17.50). A quarant’anni dall’arresto di Enzo Tortora – era il 17 giugno 1983 -, uno dei conduttori televisivi più famosi, campione di ascolti con “Portobello”, la figlia Gaia ripercorre le tappe di una pagina molto triste della giustizia italiana. Un diario in cui spiccano l’accusa rivolta al giornalista e volto noto della Rai di associazione per delinquere di stampo camorristico, finalizzata al traffico di droga e armi, e il dramma vissuto dalla sua famiglia.

Pagine di storia del nostro paese, che, incredulo, in quelle giornate di quarant’anni fa cercò di interrogarsi su una vicenda giudiziaria risolvibile con più oculatezza e meno sensazionalismo. Una vicenda giudiziaria che ancora oggi fa riflettere sui devastanti meccanismi attivati dalla gogna mediatica. Le immagini di Enzo Tortora con le manette bene in vista sono il simbolo di una barbarie, che, purtroppo, si è ripetuta pure negli anni successivi.
«Ultimamente – dice al Dubbio Gaia Tortora - la gogna mediatica o l’uso della giustizia in un determinato senso non riguarda solo l’Italia. Quello che sta avvenendo a Bruxelles con le condizioni di detenzione dell’eurodeputata Eva Kaili è una cosa vergognosa. Dare lezioni all’Italia, quindi, non è proprio corretto».
Il tintinnio di manette si è globalizzato?
Potremmo dire di sì. Forse, riguarda un po’ di più realtà a noi vicine. Ma anche il caso Trump ci ha fornito chiare indicazioni. Quando ha iniziato a circolare la notizia di un suo probabile arresto, che è sicuramente una notizia, dato che per la per la prima volta un ex presidente degli Stati Uniti d’America è incappato in una vicenda giudiziaria così grave, ho notato che per un paio di giorni la nostra informazione si è chiesta se avremmo visto Trump con le manette. Una situazione indicativa. Puntare i riflettori sul “vedremo” o “non vedremo” Trump con le manette denota un certo provincialismo e un modo di ragionare molto limitato.
Quanto è cambiata l’Italia dal 1983 ad oggi? Il nostro paese è ancora vittima di certe pulsioni colpevoliste?
Queste pulsioni ci sono ancora. Purtroppo, alcune volte sono alimentate da un certo modo di fare informazione. Non so se chi la pensa come me appartiene ad una maggioranza o ad una minoranza. Di certo, è una parte dell’opinione pubblica con una idea precisa della giustizia, silenziosa e ben educata. Non urla, non strilla. Fa meno notizia, però c’è. È più facile solleticare l’altra parte dell’opinione pubblica.
In vicende caratterizzate da errori giudiziari a pagare un prezzo altissimo non sono solo le persone accusate, ma anche le loro famiglie. I danni sono incalcolabili?
Sì, è proprio così. I danni sono incalcolabili e tante volte irreparabili. È il motivo per il quale, dopo tanti anni e dopo mille modi di analizzarmi e di analizzare quanto affrontato direttamente, ho deciso di mettere nero su bianco la storia della mia famiglia. Dietro un errore o un caso di malagiustizia ci sono una moglie, dei figli, una famiglia, un lavoro. Ci sono altre vite che spesso vanno in frantumi. Un errore ci può sempre essere, ma nel campo della giustizia bisogna che tutto sia il più veloce possibile, senza tenere una persona appesa per mesi o anni. Già è complicato restituirlo alla propria vita con tempi brevi. Immaginiamoci con tempi lunghi. È praticamente impossibile.
La vicenda di Enzo Tortora è una storia di malagiustizia caratterizzata da errori giudiziari e superficialità?
In tutti questi miei anni di riflessione mi sono soffermata proprio sulla parola malagiustizia, applicata al caso di mio padre. Mi spiego meglio. Non si è trattato di malagiustizia. Negli ultimi anni ho maturato la convinzione che si è trattato di una vera e propria forma di accanimento. Sappiamo tutti che quanto costruito poteva essere smontato in poco tempo. Tutto ciò non è avvenuto, perché faceva comodo parlare di una retata nei confronti della Nuova camorra organizzata con numeri mai visti. Se fossero state fatte dalla magistratura quelle tre verifiche che un collega giornalista ha invece provveduto a fare, notando che non coincideva nulla, avremmo avuto altri esiti. Ecco perché la parola malagiustizia a me non sta più bene.
Lei ha fatto cenno al lavoro giornalistico ben fatto, che non si ferma davanti ai teoremi propinati da una parte. Abbiamo sempre più bisogno di buon giornalismo?
Ho semplicemente fatto riferimento al giornalista che fa il suo mestiere, senza prendere veline o affidarsi a tesi preconfezionate. Nel nostro lavoro occorre sempre farsi delle domande. Nella vita si possono nutrire delle antipatie per qualcuno, ma da qui a triturarlo con tutto quello che ne comporta ce ne vuole.
Dichiararsi garantisti significa quasi essere associati ad un partito politico. Cosa ne pensa?
La politica tira per la giacchetta, a seconda delle convenienze. Ma io dico sempre che il garantismo è come un capo di abbigliamento che tu hai sempre nel tuo armadio. Non lo metti o lo butti via in base alla tua convenienza. È qualcosa che hai nel dna. È un fatto culturale, è un modo di vivere, di riflettere. O ce l’hai o non ce l’hai. Non si può avere a fasi alterne.
“Testa alta, e avanti” è un insegnamento che le ha dato suo padre?
Si tratta di una frase che mio padre mi diceva e scriveva nelle sue lettere. È diventata poi una corazza per me, che giocoforza sono diventata un bravo soldato, pagandone, in un certo modo, il prezzo. Ho maturato negli anni l’idea che, come me, ci sono tante altre persone che hanno sofferto, che soffrono e che si sentono sole. Io spero che con questo libro si sentano meno sole. In questi giorni in tanti mi hanno detto che sono stata molto coraggiosa nello scrivere il mio libro. Io con estrema tranquillità rispondo: “Non ti preoccupare, l’ho fatto io per te”. Se tutti ci impegnassimo a fare qualcosa per l’altro, ma anche per un tema che può toccare anche l’altro, vivremmo meglio.