L’uccisione di Elisa Pomarelli da parte di Massimo Sebastiani ha messo in evidenza, più di altri casi, l’arretratezza e l’impreparazione di giornali e tv sul tema del femminicidio. Si va dal “gigante buono” riferito a Sebastiani al solito “è stato un raptus”, fino “all’amore non corrisposto”. Sono tutti modi per sminuire l’accaduto. Femminicidio di Piacenza, la narrazione killer di giornali e tv

L’uccisione di Elisa Pomarelli da parte di Massimo Sebastiani ha messo in evidenza, più di altri casi, l’arretratezza e l’impreparazione di giornali e tv su un tema così delicato come il femminicidio.

L’elenco delle nefandezze scritte è lungo. Si va dal “gigante buono”, come un titolo del Giornale ha definito - tra le proteste - Sebastiani, al solito “è stato un raptus”, fino “all’amore non corrisposto”. Sono tutti modi per sminuire l’accaduto, per giustificare un atto, per mettere in buona luce chi ha commesso il delitto. “Piangeva”, “è pentito”, “era ossessionato” sono alcune delle descrizioni lette in questi giorni che svelano come ancora oggi scontiamo la ricaduta di una cultura che resta profondamente maschilista. Anche quando si dice di voler stare dalla parte delle donne, nel momento in cui si deve raccontare un fatto di cronaca che le riguarda si fa ricorso a tutti gli stereotipi che fanno parte della stessa cultura in cui nasce la violenza degli uomini. Non è garantismo, non è difesa dello Stato di diritto contro il processo mediatico. Se così fosse, quando sono coinvolte persone di origine africana non leggeremmo ricostruzioni totalmente diverse e di stampo razzista.

Nel caso di Piacenza c’è un di più che lo rende particolarmente emblematico. Elisa era lesbica. Una parola che in questo Paese desta ancora paura e scandalo. Altrimenti non si capisce perché questa difficoltà a pronunciarla, dirla, scriverla. Secondo un giornalista di Repubblica non andava usata perché Elisa, che aveva 28 anni, non aveva deciso ancora che cosa “diventare da grande”. È una riflessione sconcertante che rivela come le donne, anche quando sono adulte, vengono raccontate come minus habentes, incapaci quasi di decidere, incastrate nello stereotipo dell’incertezza, della confusione, della fragilità emotiva e sessuale.

Elisa aveva un orientamento sessuale che viveva alla luce del giorno e raccontarlo non vuol dire calpestare la sua privacy ma dare valore alla sua biografia, alla sua storia, a una vita spezzata da un uomo violento.

Non dire che era lesbica significa invece avallare l’idea che amare altre donne in fondo sia meno dignitoso che amare l’altro sesso, che una donna lesbica lo è solo a metà perché gli uomini, in fondo in fondo, le piacciono sempre. Non dirlo è un atteggiamento discriminatorio spacciato per rispetto.

Dopo il ritrovamento del cadavere, l’uccisione di Elisa è diventato il primo titolo dei Tg. L’informazione ha capito finalmente l’importanza del tema? No, purtroppo non è così. È invece il segno della sua ulteriore banalizzazione. L’uccisione di una donna, da parte di un uomo che pretendeva di amarla contro il suo volere, viene spostato dal piano del potere di un sesso sull’altro e ridotto a cronachetta televisiva. Non si è parlato del fenomeno dei femminicidi, non si sono intervistate le donne impegnate nei centri antiviolenza, non si è aiutato chi è a casa a capire fuori dalla solita drammaturgia. Si è scelto invece di toccare le corde emotive: i vicini di casa, la sorella che scrive il saluto su facebook, lo sconcerto del Paese, i fiori, il silenzio in cui si sono chiusi i genitori della giovane donna. Neanche una frase che faccia capire davvero che cosa sia accaduto e cosa fare per uscirne. Il copione giornalistico si ripete con la stessa drammatica evidenza della realtà, senza scarto, senza spessore.

Eppure in questi anni si è fatto tanto per cambiare il linguaggio e far capire a giornalisti e giornaliste l’importanza dei termini e dello stile da utilizzare. Il movimento femminista “Non una di meno”, nel suo piano antiviolenza, dà preziosi suggerimenti e le giornaliste riunite nell’associazione “Giulia” organizzano corsi di formazione rivolti a colleghe e colleghi.

Non mancano gli studi e le competenze, ma quando si parla di femminicidio ritornano i soliti termini. Chi scrive un articolo e ancora di più chi firma un servizio in tv ha una responsabilità molto grande: parla a migliaia di italiani e di italiane e può fornire gli elementi di comprensione per un cambiamento di mentalità. Ma prima lo sforzo per cambiare lo dobbiamo fare noi.