E adesso, prima di misurare i sentimenti, gli umani misureranno i centimetri. Prendere le misure non significherà più quella fase di studio tra un uomo e una donna, tra uomini d’affari, tra ciclisti in fuga.

Tre passi nel delirio. Tre Registi: Malle, Fellini, Vadim. Era il ’ 68. Quanti centimetri sono, oggi, tre passi nel delirio? Forse esattamente gli stessi che hanno immaginato i nostri virologi, identificando la distanza di sicurezza tra contaminando e contaminato.

Sarebbero qualcosa in più di due metri. E che caspita di misura è “qualcosa in più di due metri”? Fatto sta che adesso, prima ancora di misurare i sentimenti, gli umani misureranno i centimetri. E prendere le misure non significherà più giocare di psicologia, quella fase di studio tra un uomo e una donna, tra uomini d’affari, tra ciclisti in fuga in vista del volatone finale.

No. Si estrarranno quei metri allungabili, quelle bisce che schizzano e se non sei accorto ti mozzano un dito. Stenderemo quei due metri per terra, accertati i quali, solo allora si potranno iniziare le conversazioni. Chiaro, saranno escluse le risse, che a dispetto delle indicazioni sanitarie necessitano ancora di contatto fisico. Ma come ci si conterrà (“Si contenga!”) tra automobilisti, come si potrà evitare la muscolare esibizione di noi che diamo il peggio nel traffico congestionato delle città, si potranno davvero disciplinare le emozioni peggiori? Ecco, a parte questo pericolo incombente, tutto il resto saranno relazioni a distanza ( di sicurezza).

Del resto, non è stato proprio il sindaco di Milano, Beppe Sala, a celebrare il funerale dei rapporti umani quando si è rivolto a noi cittadini, dicendo che forse era il caso di “limitare la socialità”? Non ci si toccherà più dunque, neppure a pensarci, le nostri mani resteranno sempre al loro posto, piantate nelle tasche, cucite nell’indifferenza. L’idea di sfiorarsi amabilmente, gentilezza di un altro tempo, va malinconicamente nell’archivio delle cose belle che furono. E baciarsi, l’atto di accostare le labbra, sotto che voce dobbiamo rubricarlo? Beh qui, se dobbiamo interpretare il momento, saremmo assolutamente nel promiscuo, in quel pericolo bacino ( doppio senso eh) di coltura di ogni virus sentimentale e non, e neppure c’è da chiedersi, nella peggiore visione pornografica dei rapporti umani, se sia il caso anche di metterci la lingua, perché qui, semmai, entreremmo in quel diabolico mix tra salivazione erotica e attentato batteriologico. No, non è proprio cosa.

Dobbiamo avere qualche colpa atavica, grave e non perdonabile, se nel 2020 ci dicono di staccarci da noi stessi, di allontanare l’altro perché è pericoloso, di mantenere un aplomb caratteriale che non farebbe parte di quel bagaglio umano che generalmente viene riconosciuto all’italiano medio, più spiccato nel terrone classico, che tutto vuole quantificare in baci e languide carezze, ma ormai sdoganato anche nel più compassato nord, dove il bacio ormai si è fatto misura elegante d’ogni rapporto, magari più sfumato e sfiorato, ma sempre esibito. I flagelli, badateci, arrivano sempre a limitare le cose belle che ci siamo costruiti nel tempo e contrappasso simbolico e crudele di tutti i flagelli della storia fu quel virus che scese chissà da dove a certificare la promiscuità dei nostri rapporti sociali e che prese poi il nome scientifico di Hiv. C’era una costruzione più maledetta di quella?

Qui, almeno per il momento, siamo in un campo più blando.

Siamo ancora sotto la voce influenza, anche se non riconducibile a una causa riconosciuta e per questo più pericolosa di una classica “svedese”. Ma certo, già sufficiente a limitare le nostre abitudine quotidiane, a evitare gli assembramenti e fin qui ci siamo, ma anche ad annullare le piccole reunion, come gli opening di una galleria d’arte che malinconicamente avverte i collezionisti che “in virtù della disposizione regionale in materia di Coronavirus…”, l’inaugurazione della mostra di Adam Gordon, prevista per domani alle 18,30, è stata annullata.

Qui, più che a limitare la socialità, siamo nei pressi del coprifuoco. E fanno impressione, a corredo dei “consigli” delle autorità cittadine, quelle immagini dei supermercati svuotati d’ogni ben di dio, perché ci si immagina rinchiusi in noi stessi per giorni e giorni, forse mesi, e perché no, forse anni di flagello batteriologico. Ma se gli scaffali vuoti sono la rappresentazione classica di un’economia contemporanea che costruisce il suo centro sul possesso di beni, che siano essi alimentari o di altro tipo, colpiscono le strade senza più anima, i cinema vuoti, gli stati deserti, i bar che tirano giù la serranda al calar della luce.

Ma insomma, ci piace pensare che nella nostra # Milanodabere di quegli anni, così vituperata, all’aperitivo con gli amici non avremmo mai rinunciato.