Di Luigi Di Maio avevamo perso le tracce. Che cosa fa, che cosa pensa l’ex capo politico pentastellato? Eravamo in ansia. Ma le gazzette ci rassicurano. Il Nostro non solo non si è dato alla macchia, magari per prudenza, perché in Italia non si sa mai come andrà a finire. Ma – udite udite – si accinge a fare il giro d’Italia. Ma non sarà un emulo di Fausto Coppi e tanto meno di Gino Bartali. Perché come il fiorentinissimo Ginettaccio non può permettersi il lusso di dire che è tutto sbagliato e tutto da rifare. Altrimenti dovrebbe confessare che in vita sua non ne ha azzeccata una neppure per sbaglio.

No, se proprio è seriamente intenzionato di farsi il giro d’Italia, dovrà indossare i panni del barone Pierre de Coubertin. Passato alla Storia, che al nostro presidente del Consiglio pro tempore piace da morire, per il suo celeberrimo motto: “L’importante è partecipare, non vincere”. E lui, il nostro impagabile Luigino, non troverà di meglio che partecipare alla campagna per le elezioni regionali. Senza alcuna speranza di vittoria. In ogni caso, si badi. Sia adesso che, eccezion fatta per la Liguria, per le altre regioni in lizza i Cinque stelle hanno fatto come Celestino V il gran rifiuto. Sia nel caso che si fossero presentati d’amore e d’accordo con il Pd. Difatti una eventuale alleanza tra i due partiti, sognata a occhi aperti da Nicola Zingaretti, non avrebbe prodotto una somma ma con ogni probabilità una sottrazione. Perché sul territorio da una vita sono stati cane e gatto, se ne sono dette di tutti i colori e non hanno fatto mai comunella.

E allora il buon Di Maio si sottoporrà a una fatica improba per restare con un pugno di mosche. Quando si dice la decrescita ( in) felice. L’aria che tira, del resto, è quella che è. I Cinque stelle sono cresciuti a vista d’occhio quando erano degli illustri sconosciuti. Ma adesso che si sono fatti riconoscere per quello che realmente sono, gli elettori gli hanno voltato le spalle. All’insegna dell’errare è umano e perseverare diabolico. Ma Di Maio, che ne sa una più del diavolo, non si scompone. Dà per scontato che nelle elezioni regionali farà un fiasco epocale. Ma, astuto come una volpe, in compenso confida di ottenere una squillante vittoria nel referendum sul taglio dei parlamentari.

Ma davvero sarà così? Pensa e ripensa, comincia lui stesso a nutrire qualche dubbio. Nella seconda deliberazione la legge costituzionale sul taglio dei parlamentari è stata approvata con una maggioranza bulgara. In pratica, alla quasi unanimità. L’ 8 ottobre scorso a Montecitorio, in occasione del voto definitivo, i banchi del governo erano pieni come un uovo. Ministri, viceministri e sottosegretari si abbracciavano e si baciavano per aver dato un taglio netto alla democrazia parlamentare. Che di questi tempi non sarà una gran cosa, ma è sempre meglio della cosiddetta democrazia diretta, dove si vota senza discutere, delle oligarchie e delle dittature. E dopo baci e abbracci Di Maio, che una ne fa e cento ne pensa, ha pensato bene di uscire da Montecitorio e di tagliare con un paio di enormi forbici una grande carta a forma di poltrona. Tra lo spensierato tripudio dei suoi cari. Deputati considerati nulla più che poltrone sulle quali appoggiare le riverite terga. Come savoir faire non c’è male.

Il guaio è che Luigino non vede più tutto rosa come un tempo. I comitati del No stanno spuntando come funghi dappertutto. E Di Maio comincia a sospettare che a una presunta maior pars di SÌ si stia contrapponendo una nutrita melior pars di NO. Questa melior pars, a differenza dell’altra, fa opinione. E, soprattutto, proseliti. I partiti che hanno votato sì in Parlamento, magari solo perché impauriti da un’opinione pubblica trinariciuta, adesso hanno parecchi ripensamenti. Ed è possibile che si schierino, apertamente o di soppiatto, a favore del nì. Come l’asino di Buridano magistralmente interpretato da Gustavo Zagrebelsky. Con il risultato che se al referendum costituzionale del 20 e 21 settembre i SÌ non prevarranno con larghissimo margine sui NO, quella di Di Maio sarà solo una vittoria di Pirro che gli lascerà l’amaro in bocca.

A ogni modo una vittoria di Pirro molto, ma molto sui generis. Perché, poveromo, resterà vittima della hegeliana eterogenesi dei fini. Il suo partito a ogni elezione regredisce come i gamberi. E adesso dà l’impressione di non avere più neppure gli occhi per piangere. Con la riduzione del numero dei parlamentari lor signori torneranno a Montecitorio e a Palazzo Madama con una manciata di deputati e senatori. E allora potrebbe addirittura succedere – non a caso l’Italia è la patria di Luigi Pirandello – che Di Maio in pubblico predichi il SÌ ma in privato ai suoi adepti consigli il NO. Perché – per echeggiare il titolo di una pellicola cinematografica – se tutto va “bene” sono rovinati. Perderebbero la faccia, sicuro. Ma manterrebbero la cadrega.

Nel discorso pronunciato nella seduta pomeridiana del 4 marzo 1947 dell’Assemblea costituente, Piero Calamandrei ricorda che durante la guerra a Firenze, quando le cose ormai volgevano al peggio, uno strillone gridava ad altissima voce: “La grande vittoria degli italiani!...”. Ma poi aggiungeva in tono più basso: “… non è vero niente”. Ecco, Di Maio potrebbe assomigliare al predetto strillone. Una “verità” ad alta voce e una opposta in sordina. E poi Di Maio dovrebbe sapere, e se non lo sa glielo diciamo noi, che Gioacchino Murat fu condannato in forza di una legge da lui stesso promulgata. E allora faccia bene attenzione, il Nostro. Non contento di aver avuto ragione in Parlamento, vorrebbe un plebiscito popolare. Ma chi di referendum ferisce, di referendum perisce. Uomo avvisato mezzo salvato.