L’intero sistema mediatico italiano, a partire dai quotidiani a tiratura nazionale, nei giorni scorsi ha correttamente dato conto dell’inequivoco segnale politico del presidente Sergio Mattarella sul proprio futuro. Mattarella, come altri suoi predecessori, per esempio Giorgio Napolitano, ritiene che il presidente uscente non debba essere rieletto. L’ha fatto capire in modo inequivoco. Sarebbe una forzatura sostenere che abbia posto un vero e proprio veto sulla propria rielezione, ma ha compiuto un gesto politico che ci assomiglia un bel po’.

Molti osservatori hanno letto questo svolgimento della vicenda Quirinale come un automatico via libera all’elezione del presidente del Consiglio Mario Draghi che, per la verità ed a suo onore, si è sempre ben guardato dal compiere gesti che anche indirettamente affrontassero il problema. Fatto è che molti analisti ( non tutti) considerano ormai scontata la salita al Quirinale di Draghi. Una conclusione, del resto, a cui è ovvio pensare se si fa coincidere il giudizio degli italiani su Draghi raccolto dai sondaggi con quello dell’attuale Parlamento italiano, che forse è invece molto più complesso.

Curiosamente nessuno pone in modo diretto ed esplicito le domande centrali di questa eventuale vicenda: Draghi ha, avrebbe, i voti per essere eletto al Quirinale, i voti dei parlamentari, non quelli dell’opinione pubblica italiana, se non è chiaro e certo cosa accadrà dopo al governo? E ancora, se la maggioranza dei gruppi dirigenti dei partiti arrivasse a questa determinazione avrebbe la forza politica per garantirla in Parlamento?

Far coincidere il consenso degli italiani con quello dei parlamentari attuali (la cui maggioranza assoluta è destinata a non tornare in Parlamento) è, forse, un’operazione rischiosa. Dipende da una sottovalutazione della gravità della crisi italiana che ha indebolito la forza dei partiti sempre più incapaci di un controllo reale sui propri esponenti e, in particolare sui gruppi che li rappresentano nelle istituzioni.

Sfogliando a caso i giornali di ieri si può leggere Sabino Cassese che avverte: «I vertici di partito non controllano i relativi gruppi parlamentari»; Stefano Ceccanti che annota: «I parlamentari non voterebbero al buio per Draghi se non fosse chiaro che cosa succede al governo dopo»; il renziano Faraone, ancor più crudo: «Vedo peones interessati unicamente al loro destino personale. Temo che assisteremo a scene da suk».

Un quadro che sembra avvalorare la geniale sintesi fornita negli anni ’ 80 del secolo scorso dal ministro Rino Formica sulla politica come «sangue e merda».

È sotto gli occhi di tutti (e viene da parecchio lontano) il drastico allentamento dei vincoli tra i parlamentari e i partiti che li hanno espressi. Il Parlamento eletto nel 2018 è stato investito in pieno dall’ubriacatura sovranista che ha fatto esplodere soprattutto (ma non solo) il M5S e la Lega con una fitta pioggia di nuovi eletti. Sui 945 componenti (630 più 315) delle due Camere, i neoeletti sono 690, il 73 per cento del totale. Tutti dolorosamente consapevoli che in pochi rientreranno in Parlamento, specie dopo il taglio selvaggio del numero dei parlamentari ispirato più dalle culture dell’antipolitica che da una sapiente razionalizzazione. E sanno che nessuno di loro otterrà (neanche) la pensione a 65 anni se la legislatura si interromperà prima di fine settembre 2022. Anzi senza arrivare a quella data perderanno anche i circa 50mila euro di contributi che hanno già versato e non saranno restituiti. Per molti di loro la fine di questa esperienza coinciderà con la ricerca di un lavoro che non hanno.

Sanno, soprattutto, tutti e 690 che la caduta dell’attuale governo presieduto da Draghi innescherebbe con alta probabilità la fine anticipata della legislatura e la loro espulsione definitiva da una condizione carica di vantaggi che non avevano mai conosciuto. Tra pensione mancata, contributi perduti e stipendi cessati, oltre 250mila euro. Non a caso analisti e commentatori riempiono i giornali dall’inizio di questa legislatura (molto prima che apparisse Draghi) di giudizi sferzanti su questa realtà e insistono nel giudicare molto improbabile e quasi impossibile lo scioglimento delle Camere. Non sarà facile convincere la gran parte dei 690 a votare, nel segreto dell’urna, contro i loro vitali interessi. E non sarà facile convincerli che spostare Draghi dalla presidenza del Consiglio al Quirinale non metterà ad alto rischio la legislatura provocandone l’interruzione.

È un segno drammatico della crisi politica da cui dobbiamo uscire, e dalla quale Draghi e Mattarella stanno lavorando per farci uscire, ma sarebbe un colpo pesantissimo per l’Italia una serie di votazioni (come abbiamo vissuto in altre epoche) senza riuscire ad eleggere al Quirinale il candidato Mario Draghi. Anche con tutto questo il paese deve (purtroppo) fare i conti.