All’inizio del mese di luglio è stato costituito, presso il Ministero della Giustizia, il tavolo tecnico che ha il compito di delineare il percorso per garantire l’equo compenso a tutti i professionisti. Secondo quanto affermato dal sottosegretario alla Giustizia, Jacopo Morrone, «l’obiettivo è valorizzare l’attività dei professionisti che hanno un peso importante e un ruolo di primo piano nella nostra società. Non è quindi più rinviabile una riforma che consenta alle libere professioni di recuperare centralità nel sistema paese».

La storia dell’equo compenso per i professionisti, in realtà, non comincia oggi. La prima normativa che riguardava questa norma per gli avvocati risale al 2012. Nella legislatura precedente, nel mio ruolo di presidente della Commissione Lavoro della Camera, mi sono impegnato su questo tema, anche presentando, l’ 11 luglio 2017, una specifica proposta di legge - a mia prima firma e sottoscritta dai colleghi di Commissione - che riguardava i professionisti ordinisti e quelli non organizzati in ordini, albi e collegi. Non era, per noi, accettabile che, come accadde - ed è solo un esempio tra tanti episodi analoghi - al Comune di Piana degli Albanesi, il lavoro degli assistenti sociali venisse pagato un euro l’ora.

Come ebbi ad affermare in sede di presentazione della proposta di legge «anche per gli effetti della profonda recessione che ha investito il nostro Paese si è progressivamente accentuato il processo di sperequazione nei rapporti tra datore di lavoro e prestatore d’opera. Tale fenomeno ha coinvolto anche il settore delle professioni, dove i committenti forti ( pa, banche, assicurazioni, grandi imprese) finiscono per imporre ai professionisti, specie a quelli giovani, compensi e trattamenti ben lontani dallo spirito e dalla lettera del richiamato articolo 36 della Costituzione».

In seguito si arrivò a una norma sull'equo compenso per i professionisti ordinisti e non ordinisti inserita in un emendamento al “collegato fiscale”, legge 172/ 2017, alla legge di Bilancio 2018. Voglio soffermarmi su quanto abbiamo messo in evidenza, in un focus dedicato al lavoro autonomo, nella terza edizione dell’indagine sui lavoratori italiani “Il lavoro che cambia” promossa dalla nostra Associazione Lavoro& Welfare in collaborazione con l’Unità di ricerca LO, Lavoro e Organizzazioni, dell’Università di Roma “La Sapienza”, guidata dal professor Mimmo Carrieri, e con Assolavoro, basata su dati rilevati nel maggio del 2017.

Rispetto a quanto emerso nelle prime due edizioni dell’indagine - 2002- 20003 e 2009- 2010 -, il lavoro autonomo è il segmento che si è maggiormente modificato nel tempo. Sul piano statistico la crisi economica iniziata nel 2008 ha causato, da una parte, una sua generale contrazione in tutti i Paesi europei. In Italia, ci dicono i dati Istat del 2017, questa contrazione è stata accompagnata da un avvicinamento delle condizioni tra lavoratori autonomi e dipendenti.

È soprattutto sul piano del reddito che le differenze tra lavoro autonomo e dipendente diventano sfumate. In particolare sui redditi medi e su quelli bassi. Emerge un forte livellamento verso il basso del lavoro autonomo che trova nella multi- committenza, più che una forza particolare sul mercato, la necessità di cumulare reddito. Anche per chi pratica una professione ordinistica emergono difficoltà legate al fattore del reddito e alla percezione di una maggiore insicurezza.

Questi elementi sono enfatizzati dall’assenza di misure di sostegno sociale, in parte affrontate con lo Statuto del Lavoro Autonomo approvato nel 2017 ( Legge 81), che ha previsto alcune fondamentali tutele: per maternità, congedi parentali, malattia, infortunio, deducibilità delle spese di formazione, tutela nelle transazioni commerciali e stabilizzazione della indennità di disoccupazione ( DIS- COLL). I lavoratori autonomi, rispetto al passato, manifestano, perciò, l’esigenza di maggiori protezioni sociali oltre al desiderio di una crescita del reddito.

Rispetto all’edizione del 2009, nella terza indagine emerge dunque una richiesta di policy specifiche da parte di questi lavoratori. L’obiettivo della battaglia parlamentare del 2017 era quello di garantire a tutti i professionisti un’equa remunerazione, proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione. Ed è lo stesso obiettivo che va perseguito oggi. Anche perché essere pagati nel modo giusto vuol dire versare giusti contributi alle casse previdenziali per avere in futuro pensioni dignitose.

Ora prende avvio, finalmente, un tavolo tecnico che ha il compito principale di effettuare una revisione del sistema dei parametri tariffari, nodo decisivo per la reale applicazione dell’equo compenso professionale. È opportuno che si dia ascolto alle proposte degli ordini, sia per quel che riguarda i suggerimenti tecnici per attuare modifiche alla normativa sull’equo compenso, sia per raggiungere un’autentica coerenza con i princìpi costituzionali in materia di dignità del lavoro. Se si discute tanto, e male, di salario minimo, al fine di dare coerente attuazione all’articolo 36 della Costituzione, questo deve valere anche per l’equo compenso.