Uno degli interventi di riforma prefigurati recentemente dal ministro Nordio, che compongono un complessivo disegno di revisione di tutti quei meccanismi processuali nei quali quotidianamente si calpestano il diritto di difesa e la presunzione di non colpevolezza, concerne la proposta di estendere quanto più possibile il momento temporale di vigenza del segreto di indagine, ovvero di inasprire le sanzioni del divieto di pubblicazione degli atti (coperti o non più da segreto di indagine).

Tutto ciò a seguito della presa d’atto di come la fase più delicata dell’intero procedimento penale, quella delle indagini, sia ormai alla mercé di tutti, contribuendo tale anticipazione delle risultanze investigative a minare alla radice i diritti e le garanzie difensive della persona sottoposta a indagini. Problema ulteriormente e drammaticamente acuito dall’ormai inarrestabile fenomeno della massmediatizzazione della giustizia penale, che ha trasformato la (legittima) domanda di informazione sulla giustizia da parte dell’opinione pubblica ( pur sempre amministrata in nome del popolo) in un bisogno ossessivo e compulsivo di celebrare il processo penale nei salotti televisivi, con l’ausilio di esperti ed elementi di prova che in quei salotti non dovrebbero in alcun modo circolare (stralci di intercettazioni, copie di richieste di misure cautelari e ordinanze applicative, decreti di perquisizione, verbali di “sit” o di interrogatori etc...).

Attualmente, infatti, il Codice di rito, unitamente alla disciplina sostanziale, prevedono, il segreto e il contestuale divieto di pubblicazione degli atti di indagine compiuti dagli inquirenti (pm o ufficiali di polizia giudiziaria) fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari ( obbligo di segreto e divieto di pubblicazione sono eventualmente prorogabili dal pubblico ministero in caso di necessità). Ugualmente e in via più generale – anche caduto il segreto di indagine sui singoli atti – si pone comunque il divieto di pubblicazione degli atti, eccetto alcuni, finché non siano concluse le indagini preliminari o fino al termine dell’udienza preliminare, così come è sempre vietata la pubblicazione degli stralci e dei contenuti delle intercettazioni.

L’apparato sanzionatorio di tale complessa disciplina si divide a seconda che sia violato il (solo) divieto di pubblicazione ovvero (anche) quest’ultimo unitamente alla diffusione di notizie inerenti atti coperti da segreto di indagine. Nel primo caso, infatti, l’ordinamento sanziona a mero titolo contravvenzionale (con una minaccia di pena del tutto irrisoria) la diffusione di atti o documenti di un procedimento penale dei quali sia vietata la pubblicazione, oltre alla possibilità di commettere un illecito disciplinare (che andrebbe perseguito dall’organo titolare del relativo potere disciplinare).

Nel secondo caso, si prevede la punibilità per il delitto di rivelazione di segreto d’ufficio per i pubblici ufficiali che rivelino notizie dell’ufficio che debbano rimanere segrete. Una disciplina – nel complesso – apparentemente esaustiva ma che, tuttavia, ha da sempre mostrato (soprattutto sul fronte della pubblicazione degli atti coperti da segreto di indagine) tutte le sue criticità e lacune in materia di efficacia preventiva, prima, e sanzionatoria, poi, delle condotte vietate.

Da qui si inserisce l’idea del ministro Nordio – al di là di alcune proposte, apprezzabili nel loro intento ma foriere di riserve (come quella che vorrebbe estendere anche oltre la fase delle indagini l’obbligo di segretezza fino al dibattimento, potenzialmente controproducente per le stesse difese e parti private, ovvero quella che vorrebbe dare nuova linfa al divieto di pubblicazione degli atti, potenzialmente pregiudicando il diritto di cronaca) – di introdurre, sulla falsariga dei procedimenti amministrativi, un “responsabile del segreto” per ciascuno dei segmenti di sviluppo delle attività investigative e di indagine.

Una proposta – come la maggior parte di quelle sino ad ora avanzate dal guardasigilli – che, prima ancora dei fini meccanismi di diritto sottesi, richiama una riflessione sulle derive che la giustizia penale ha assunto in Italia. La ratio, infatti, non può che trovare piena condivisione da parte di chi – come chi scrive – avvocato penalista, si trova quotidianamente a dover raccontare ai propri assistiti che la legge, di per sé sola, non può tutto quando chi quella legge deve applicare si dimostra accondiscendente ad altri valori o principi ritenuti maggiormente meritevoli di tutela.

L’intento della proposta del ministro Nordio – al netto delle riflessioni “operative” che necessariamente si imporranno, per capire le modalità del controllo da parte di questo responsabile del segreto (per evitare che lo stesso possa essere sanzionato a mero titolo di responsabilità di posizione), i suoi poteri e i suoi doveri – si inserisce, dunque, nella univoca e quanto mai necessaria prospettiva di riequilibrare il sistema di valori che, per Costituzione, deve governare il processo penale: primo e solenne tra tutti, la presunzione di non colpevolezza, che dev’essere garantita – a maggior ragione – sin dalle primissime battute di inizio di un’indagine penale, con una decisa selezione di quanto può o non può essere divulgato o pubblicato.