PHOTO
“Strage di Erba: Rosa e Olindo colpevoli (a dispetto del revisionismo mediatico). Ecco il perché nel nostro podcast”: così titolava la testata “La provincia di Como” qualche giorno fa per replicare indirettamente al servizio delle Iene andato in onda domenica, durante il quale una inchiesta di Antonino Monteleone, dal titolo provocatorio “Scommettiamo che Rosa e Olindo sono innocenti?”, ha ricostruito la mattanza avvenuta nel 2006, le indagini e il processo da una prospettiva opposta a quella accusatoria.
Anche noi in passato abbiamo sollevato molti dubbi su questa vicenda, a partire dalla testimonianza dell’unico testimone, Mario Frigerio. Comunque tre gradi di giudizio hanno indicato i due come colpevoli dell’uccisione di Raffaella Castagna, del figlio Youssef Marzouk, della madre Paola Galli e della vicina di casa Valeria Cherubini. La riproposizione del podcast “Anime nere”, realizzato dai giornalisti Martina Toppi e Paolo Moretti, serve alla testata locale a ribadire ancora una volta i cinque motivi per cui non può esserci altra verità che la colpevolezza dei due. E lo fanno anche attraverso la voce di Luisa Lo Gatto, giudice di Como che scrisse le 280 pagine di sentenza sul caso e che racconta «cosa è andato storto e perché l’incredibile stress mediatico sollevato intorno alla Strage di Erba ha fatto così male». Secondo la magistrata, «l’accanimento innocentista degli ultimi sedici anni ha alimentato il livello dei conflitti. Durante il processo le vittime dirette ed indirette hanno reso le loro deposizioni in condizioni di forte stress, dovuto ad una cross examination particolarmente serrata e poco rispettosa, anche a causa della pressione mediatica: il clima di tensione era evidente - prosegue -. E poi è seguito l’affronto, per i signori Castagna, di essere addirittura sospettati di un diretto coinvolgimento nella strage. Il processo ci ha mostrato il volto disumano della giustizia, parlo della giustizia che segue a un processo penale ovviamente».
In realtà, come detto più volte su questo giornale, dovremmo augurarci che in ogni processo avvenga un vero controesame, molto spesso svilito proprio dei giudici che non permettano ai legali di “stressare” i testimoni. Il problema, come ci disse l’ex presidente dell’Unione Camere penali, Valerio Spigarelli, «è che il contraddittorio vero, quello in azione, non è mai stato digerito dalla maggioranza dei magistrati italiani, in particolare dai giudici, anche in tema di esame testimoniale». Tornando al podcast, per la giudice è stato un processo molto faticoso anche «per la perturbante presenza di media e la spettacolarizzazione che di quel processo è stata fatta, visto che parallelamente a quello giudiziario vi è stato un processo mediatico. Nei soggetti più fragili ed esposti può scatenare tempeste di ansia e di paura» o anche «istinti narcisisti e bisogno di visibilità». Abbiamo pure noi continuamente stigmatizzato i processi mediatici paralleli portati avanti non rispettando la presunzione di innocenza e trascurando il contraddittorio delle parti. Ma allo stesso tempo abbiamo difeso, soprattutto in tempo di pandemia, quando i processi venivano fatti a porte chiuse, il diritto alla pubblicità dell’udienza. Comunque per Lo Gatto quella «è stata una esperienza umana fallimentare per i soggetti emotivamente più coinvolti per definizione, quindi mi riferisco alle vittime e anche agli imputati. Un carico collettivo di dolore che invece di trovare un contenimento e una qualche forma di pacificazione è stato invece amplificato all’ennesima potenza. Io ho assistito a ciò inerme. Benché il mio lavoro di giudice sia stato riconosciuto, avendo la mia sentenza passato il vaglio di tutti i gradi, è comunque una esperienza per me da archiviare o da ricordare come occasione di ripensamento in generale rispetto al modo in cui nelle aule penali si può fare giustizia».
Cosa è andato storto, chiede la giornalista nel podcast? «Penso che le vittime non siano state sufficientemente rispettate nella loro dignità. Sono state costrette a rievocare in pubblico una esperienza dolorosa forse anche nel momento sbagliato. E questo costituisce già di per sé fonte di vittimizzazione secondaria. Nel processo penale la vittima è usata strumentalmente per raggiungere un obiettivo che tutti i processi perseguono: ottenere la verità processuale. Nessuno si è preoccupato di concordare i tempi delle loro deposizioni per renderli più compatibili con il loro stato emotivo. Poi la vittimizzazione secondaria si è ripetuta a causa del clima di tensione in cui le deposizioni sono state raccolte. Il signor Frigerio e i signori Castagna hanno subito un fuoco incrociato delle parti in condizioni di forte stress amplificato dalla presenza dei media e fotografi. Hanno poi subito una vittimizzazione secondaria extra processuale a causa del processo mediatico parallelo, hanno affrontato un vero e proprio calvario dentro e fuori il processo. Nessuno ha preso contatti per loro con la stampa per garantire maggiore serenità, nessuno li ha assistiti durante il dibattimento, nessuno ha assicurato loro una assistenza psicologica dopo la conclusione del processo».
A differenza, ad esempio, di quanto avvenuto in Francia con le vittime del Bataclan. «Anche gli imputati sono stati gettati in pasto ai media e ai fotografi che li hanno immortalati in tutte le possibili posizioni dietro le sbarre quasi fossero animali e non esseri umani. Vittime e carnefici sono stati intrappolati nei loro rispettivi ruoli». La soluzione per la magistrata? «Progetti di giustizia riparativa e di pacificazione sociale».