Otto condanne e 22 assoluzioni. La sentenza d’appello per la strage dell’hotel Rigopiano - travolto il 18 gennaio 2017 da una valanga che provocò la morte di 29 persone - conferma quasi in toto quella di primo grado, quando erano state cinque le condanne, tanto da far gridare allo scandalo i familiari delle vittime, anche ieri presenti in aula per chiedere pene severe per i cari scomparsi.

I giudici della Corte d’Appello dell’Aquila hanno condannato l’ex prefetto di Pescara Francesco Provolo, assolto in primo grado e condannato in appello a un anno e otto mesi per falso e omissioni di atti d'ufficio, confermando le condanne inflitte al sindaco di Farindola Ilario Lacchetta, ai dirigenti della Provincia Paolo D’Incecco e Mauro Di Blasio, al tecnico Giuseppe Gatto e all’ex gestore dell’hotel Bruno Di Tommaso. Condannati anche Leonardo Bianco, ex capo di gabinetto della Prefettura, e Enrico Colangeli, tecnico comunale di Farindola.

Provolo è stato assolto dalle accuse più gravi, confermando la sua innocenza in relazione alla morte delle vittime e alle gravi lesioni in danno degli ospiti sopravvissuti, nonché «per la infamante accusa di depistaggio delle successive indagini», ha commentato il suo legale Gian Domenico Caiazza. Provolo è stato ritenuto responsabile «per una ipotesi di omissione di atti di ufficio e per la relativa, asseritamente falsa comunicazione al ministero degli Interni, entrambe relative al giorno 16 gennaio», ha spiegato Caiazza ai giornalisti dopo la sentenza, parlando di «fatti del tutto privi di rilevanza in ordine alla tragedia» di due giorni dopo. Provolo, infatti, avrebbe detto il falso sulla viabilità delle strade della Provincia, comprese quelle che portavano all’hotel Rigopiano passando per Farindola.

Lo scorso anno la sentenza di primo grado aveva spinto i familiari a parlare di «strage senza colpevoli», tesi supportata da titoli di giornale che cavalcavano la rabbia dei parenti delle vittime, esplosa con violenza in aula contro il giudice che, valutate le prove, aveva individuato “solo” cinque responsabili. Il riassunto di come la giustizia penale arriva nelle case della gente stava tutto nella frase twittata dal ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini: «29 morti, nessun colpevole (o quasi). Questa non è “giustizia”, questa è una vergogna», scriveva poco dopo la lettura della sentenza di primo grado. Pochi secondi per scrivere un pensiero tanto semplice quanto deleterio, che trasforma la giustizia in una gara tra vincitori e vinti. «A nessuno viene in mente - scriveva all’epoca Caiazza rivolgendosi a Salvini -, nemmeno per un attimo, che un’accusa possa essere infondata (e che un innocente ne risulti maciullato nella sua vita professionale, nella sua dignità, nei suoi affetti): se ci sono degli imputati, devono esserci dei condannati. O almeno, se ho ben capito: “quasi tutti”. Insomma, posto che se ci sono delle vittime, devono esserci necessariamente dei colpevoli, una volta che una Procura della Repubblica li ha individuati in quegli imputati, questi sono automaticamente “i colpevoli”. Tutti. Siamo tutt’al più disposti a tollerare una percentuale lievissima di assolti, che andrà pur stabilita una volta per tutte, oltre la quale incombe “la vergogna”».

L’albergo era raggiungibile da un’unica strada, gestita dalla Provincia, che doveva sempre essere tenuta libera. Ma quindici giorni prima della tragedia si ruppe la turbina che avrebbe consentito di liberarla in casi complicati come quello del 18 gennaio 2017. Perfino il presidente della Provincia, però, non ha mai saputo di quel guasto da chi era tenuto ad informarlo. E le intercettazioni, stando a quanto emerso dalle carte, dimostrano che nessuno ha avvisato nessuno. Nemmeno il Prefetto.

«Le intercettazioni sono pacifiche: nessuno lo dirà a nessuno - aveva spiegato Caiazza al Dubbio dopo la sentenza di primo grado - . Il Prefetto, secondo l’accusa, avrebbe dovuto organizzare meglio la Sala operativa, perché così, secondo la prospettazione della procura, la notizia sarebbe stata comunicata. Ma questa notizia non era nota e la presenza della Sala operativa, che pure c’era, non avrebbe cambiato nulla. Un giudice onesto, perbene, che studia le carte, non può condannare chi non risulti responsabile. Cosa c’è di così difficile da comprendere? Il giudice ha compreso, sulla base delle prove, che al Prefetto non poteva essere imputata un’omissione rispetto a qualcosa che non aveva mai saputo, in un contesto in cui c’era l’inferno su tutto l’Abruzzo, non solo su Rigopiano. C’erano ospedali, paesi interi senza corrente elettrica, anziani bloccati in casa al freddo. Tutta l’attività di coordinamento della Prefettura è documentata». Una perizia ha poi accertato che il piano valanghe, previsto dalla legge e onere della Regione, non esisteva. E pertanto quella di Rigopiano non era indicata come zona a rischio, circostanza che ha consentito di mantenere aperto l’Hotel. La carta è stata fatta con un ritardo di 20 anni, un anno dopo la tragedia.

Stando alle motivazioni della sentenza di primo grado, firmate dal giudice Gianluca Sarandrea, quella valanga era imprevedibile, conclusione che ha fatto cadere l’ipotesi accusatoria più grave, quella di disastro colposo. Secondo le conclusioni della perizia, sposate dal giudice, «non erano disponibili al momento degli accadimenti in oggetto strumenti idonei a prevedere l’evento». E «nessun elemento consentiva di riscontrare una condizione di effettivo rischio valanghivo sull’area in questione; se ne deduce pertanto che debba escludersi che l’omissione degli imputati possa avere avuto alcuna incidenza causale con gli eventi che secondo le indicazioni riportate in rubrica hanno portato al crollo dell’hotel ed al decesso ed alle lesioni delle persone presenti a vario titolo nell’hotel Rigopiano al momento dell’impatto della valanga».