Pare che Andrea Cozzolino non possa tornare in libertà per motivi di «pubblica sicurezza». È quanto sostiene il procuratore belga Michel Claise, titolare dell’inchiesta Qatargate che nel mandato di arresto dell’eurodeputato del Pd sottolinea «lo stato d’animo» e «la personalità dell’indagato» tali da spingerlo «a commettere nuovi reati simili o più gravi», «a far sparire le prove», o «provocare false testimonianze».

Le accuse formalizzate da Claise sono «associazione a delinquere», «corruzione» e «riciclaggio». Cozzolino farebbe dunque parte di un’organizzazione criminale animata dall’ex sindacalista Pier Antonio Panzeri, dal suo ex collaboratore Francesco Giorgi e dal deputato europeo Marc Tarabella allo scopo di favorire gli interessi del Qatar e del Marocco negli alti organismi comunitari in cambio di lauti compensi. In particolare Cozzolino si sarebbe occupato di perorare la causa marocchina su mandato di Abderrahim Atmoun, ambasciatore di Rabat a Varsavia, con il quale avrebbe avuto diversi incontri.

Attorno alla figura di Atmoun la procura bruxellese ha costruito una specie di romanzo con tratti da spy story. L’ambasciatore prenderebbe infatti istruzioni da un sulfureo funzionario della Dged (i servizi di intelligence marocchini), che si chiama Mohamed Belharache e che nel 2016 fu accusato di aver infiltrato i servizi antiterrorismo francesi, reduci dal massacro del Bataclan e ignari della strage che sarebbe avvenuta a Nizza a luglio dello stesso anno. Belharache, che aveva una residenza fittizia in Alsazia, era ufficialmente ricercato dalle autorità transalpine ma non è mai stato individuato. Un curriculum controverso, quello dell’agente segreto di Rabat, ma che non fornisce elementi concreti per vederci più chiaro nell’inchiesta d i Claise. Si ha quasi l’impressione che il suo nome venga evocato per scopi letterari più che per sostenere le tesi dell’accusa.

Ma veniamo ai fatti più “concreti”. A tirare in ballo Cozzolino è stato lo stesso Giorgi, spremuto in galera dagli inquirenti: «Cozzolino era implicato con il Marocco, aveva avuto dei contatti con Atmoun grazie a Panzeri che era presidente della commissione maghreb che gli ha passato il testimone. Entrambi hanno ricevuto regali e denaro, non conosco la cifra esatta, ma parliamo di alcune decine di migliaia di euro, meno che dal Qatar».

Il primo giugno dello scorso anno Cozzolino aveva incontrato Atmoun in Polonia -scrivono gli inquirenti- e in quell’occasione ha ricevuto «un’onorificenza» e in dono «una cravatta» e «avrebbe discusso (o avrebbe voluto discutere) della linea da seguire nella Commissione parlamentare mista Ue-Marocco». In un incontro dell’anno precedente avvenuto nell’appartamento di Cozzolino a Bruxelles, quest’ultimo avrebbe chiesto ad Atmun di poter parlare urgentemente con il ministro degli esteri del Marocco «che gli avrebbe affidato una missione».

In un’intercettazione telefonica Panzeri e Giorgi si sarebbero poi messi d’accordo per far entrare Cozzolino e l’eurodeputata greca Eva Kaili nella Commissione speciale Pegasus che si occupa di spionaggio informatico ai danni dell’Ue «nell’ottica di difendere gli interessi marocchini». La testimonianza di Giorgi e le deduzioni di Claise non sembrano però offrire più luce a un’inchiesta vaga e fumosa che promette da mesi di «allargarsi a macchia d’olio», che stuzzica il sensazionalismo dei media tutti eccitati nell’evocare “il più grande scandalo nella storia dell’Ue” , ma che gira sempre intorno agli stessi elementi.

Claise sostiene che Panzeri e Giorgi «avrebbero operato clandestinamente in cambio di remunerazione affinché certe decisioni, dichiarazioni e risoluzioni venissero prese a favore del Marocco in sede di Parlamento europeo». A quali importanti decisioni si riferisce il procuratore non è però dato saperlo, anche perché non esiste a memoria nessuna votazione o risoluzione specifica dell’europarlamento che abbia favorito gli interessi del Marocco con il ruolo attivo degli indagati. L’unica circostanza evidenziata da Claise sarebbe una dichiarazione di Cozzolino a favore del riavvicinamento diplomatico tra Spagna e Marocco che gli avrebbe chiesto Atmoun tramite l’intercessione di Panzeri. Non molto per stabilire il reato di corruzione e associazione a delinquere.

Ma il procuratore belga, come spiega nelle tante interviste concesse ai giornali, ha intenzione di andare fino in fondo con il suo romanzo giudiziario. E a tenere in carcere gli indagati il più tempo possibile per farli confessare. Il caso dell’ex vicepresidente dell’europarlamento Eva Kaili, è emblematico: arrestata dalla polizia giudiziaria belga che ha violato l’immunità parlamentare sostenendo che fosse stata colta in flagranza di reato anche se il reato è attualmente sconosciuto, è in prigione da oltre due mesi. Madre di un bambino di 22 mesi privato di entrambi i genitori (il padre è per l’appunto Francesco Giorgi anche lui in arresto) Claise non le ha concesso i domiciliari per poter occuparsi di suo figlio, nella speranza che questo la facesse “crollare”. Nelle dittature per farti parlare ti tirano via le unghie e minacciano di morte i tuoi familiari, in democrazia questo non si può fare, ma alcuni magistrati, come il mediatico Michel Claise, si affidano agli stessi principi approfittando al massimo e anche oltre dei poteri investigativi che gli concede la legge e calpestando allegramente la presunzione di innocenza e il diritto alla difesa.

L’impressione, molto fastidiosa, è che la pressione fisica e psicologica sugli imputati sia inversamente proporzionale ai successi e agli avanzamenti dell’inchiesta. E non c’è bisogno di essere degli ultras del garantismo per notare la contraddizione come ha fatto peraltro l’ex procuratore antimafia molto duro sull’uso smodato della custodia cautelare da parte dei colleghi belgi e sulla totale mancanza di gravità indiziaria emersa finora dalle carte del “Qatargate”.