«A differenza di quello che ritiene l'ex 'toga rossa' in pensione Giancarlo Caselli, che ha incredibilmente offeso i giudici milanesi definendoli non sereni, in tal modo dimostrando ancora una volta la faziosità esistente in una parte della magistratura (garantista a corrente alternata), io ritengo che il contenuto della sentenza fosse ampiamente prevedibile e come tale condivisibile». Così all'AdnKronos l'ex presidente dell'Anm Luca Palamara commenta l'assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo Ruby Ter. 

Si tratta, osserva Palamara, di «una sentenza emessa da giudici autonomi e indipendenti che come, recita l'art.101 della Costituzione, sono soggetti soltanto alla legge. Si può, ovviamente, criticare la sentenza, ma quando nacque l'inchiesta tanti, anche all'interno della magistratura, sapevano come sarebbe andata a finire».

«Penso - ribadisce Palamara - che uno stato di diritto abbia bisogno di giudici che applichino in maniera indipendente ed imparziale le leggi senza cercare il consenso della piazza o di questo o di quel giornale dove magari lavorano i figli. Troppo spesso la magistratura è stata trascinata su un terreno di contrapposizione politica che non le deve appartenere. E' giusto criticare i provvedimenti, ma mettere in dubbio la serenità significa andare oltre e questo è molto grave. Tanti magistrati non vogliono identificarsi in una visione oramai superata di una magistratura politicizzata».

Di processi e indagini, Silvio Berlusconi ne ha subiti decine. Fisiologia giudiziaria, per alcuni, persecuzione e accanimento dei pm, per altri. «Come ho raccontato nel 'Sistema' - chiosa in proposito Palamara -, io posso raccontare l'esperienza da me vissuta alla guida dell'Anm. Senza, ovviamente, entrare nel merito del procedimento, è indubbio che quando emerse l'inchiesta su Ruby, anche all'interno della magistratura associata si discuteva sull'eccesso di politicizzazione di quell'inchiesta. L'ordine di scuderia era quello di fare blocco intorno ai pubblici ministeri milanesi. E così avvenne: prevalse la linea di coloro i quali ritenevano di dover supportare le dieci domande di Repubblica perché Berlusconi non poteva avere alcuna “legittimazione storica, politica e culturale e anche morale per riformare della giustizia”».