Nessuno scontro. Anzi, molte perplessità condivise. Via Arenula smentisce categoricamente, con una nota diffusa nel pomeriggio di ieri, un conflitto, sulla nuova prescrizione, tra il guardasigilli Carlo Nordio e il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto. «Nessuno scontro, nessun litigio, ma un quotidiano e costruttivo dialogo su tutti i temi della giustizia», recita testualmente il comunicato. Che prosegue: «Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il vice, Francesco Paolo Sisto, smentiscono “con vigore” le indiscrezioni di stampa relative ad un loro presunto dissidio sulla riforma della prescrizione. Totale armonia e costante confronto su tutto».

E insomma, il quadro rispetto a quanto era circolato nelle ore precedenti è assai diverso. Non è vero che il guardasigilli propenda per il “congelamento” della nuova legge, né che Sisto sia inviperito e contrariato per le esitazioni di Nordio. Da quanto si apprende, sono entrambi molto perplessi di fronte alla richiesta avanzata dieci giorni fa dai presidenti di Corte d’appello di tutti e 26 i distretti giudiziari d’Italia: una norma transitoria che renda applicabile la nuova disciplina sulla prescrizione solo ai reati commessi dopo la sua entrata in vigore. Un’ipotesi con la quale le toghe intendono sottrarsi al ricalcolo dei termini per i procedimenti già in corso.

Ma la soluzione che i capi di Corte prospettano è sì in apparenza giustificata dall’ansia per gli obiettivi del Pnrr, ma di fatto promette di complicare ancora di più il quadro. E il motivo è semplice. Giacché la prescrizione è istituto di diritto sostanziale, indagati e imputati dei processi già in corso potrebbero tranquillamente eccepire l’illegittimità costituzionale della norma transitoria. Quanto meno in tutti quei casi in cui la disciplina attuale, connotata dall’improcedibilità nelle fasi d’impugnazione, prevede termini più lunghi di quelli che la riforma del centrodestra introdurrebbe. Si finirebbe cioè con una catena di processi bloccati in attesa che la Corte costituzionale decida sulla questione di costituzionalità. Con conseguenze ancora più devastanti per il rispetto degli impegni assunti col Pnrr.

I contenuti della riforma e il no delle toghe 

Ma perché una legge che sembrava pronta per il primo via libera alla Camera è impantanata da oltre un mese? La risposta è forse in un sortilegio che sembra incombere su ogni riforma della prescrizione. Come se la materia debba inesorabilmente accendere gli animi. In Parlamento, certo. Ma anche fra magistrati e politica. Forse perché la disciplina dei termini di estinzione del reato per il decorso di un tempo eccessivo sublima il conflitto fra due visoni del diritto penale. Da una parte la visione autoritaria della potestà statale, detentrice di un potere assoluto sull’individuo, e se possibile ancora più intrusivo se il cittadino è imputato. Dall’altra il diritto penale liberale, che concepisce il processo e la pena in armonia con i limiti della ragionevolezza, dei diritti della persona, incluso quello a non essere perseguiti quando ormai la propria vita è cambiata. Sono due mondi che, quando si incontrano, sprigionano una sorta di big bang idelogico-dottrinale. Ed è successo pure stavolta.

Adesso il quadro è il seguente. La legge sulla nuova prescrizione è pronta. Ha visto, già da ottobre, l’accordo delle forze di maggioranza: Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. Si è partiti dalla ex Cirielli, con un provvidenziale reset: spazzate via le ultime tre precedenti riforme, ossia la Orlando del 2017, la Bonafede entrata in vigore nel 2020 e la Cartabia del 2021. Base di partenza semplificata (il termine di prescrizione, per ciascun reato, corrisponde al massimo edittale della pena prevista aumentato di un quarto) e successivo emendamento dell’intero centrodestra, che ha riassimilato l’impianto normativo alla riforma Orlando, con qualche lieve differenza.

Si è tornati cioè alla sospensione dopo la condanna in primo grado, che era di 18 mesi in base alla riforma del 2017 e che diventa di 24 mesi con la nuova legge. Ripristinata anche la sospensione dopo l’eventuale condanna in secondo grado (di 12 mesi, con Orlando era di 18), ma stavolta solo a patto che la pronuncia di colpevolezza in appello confermi la sentenza di primo grado. Contemplata pure la cosiddetta “rimessa nel conto” delle due appena citate sospensioni, nel caso in cui l’imputato venga prosciolto, come avveniva già con la Orlando, ma adesso anche nel caso in cui il grado di giudizio in questione non si concluda (col deposito della relativa sentenza) entro il tempo concesso dal “bonus”.

In tal modo questo eventuale supplemento temporale non solo consente l’effettiva celebrazione del giudizio ma è anche un pungolo per sbrigarsi. Un congegno niente male – di cui si prevede, sempre come nella Orlando, l’applicazione anche al giudizio d’appello conseguente all’annullamento con rinvio – e che non a caso, nelle rimodulazioni introdotte rispetto alla riforma del 2017, recepisce appieno la logica indicata (inutilmente) nel 2021 a Cartabia dalla Commissione Lattanzi, cioè dal meglio della scienza giuridica.

Ineccepibile. Sarebbe tutto pronto. Anzi: era tutto pronto. E infatti la nuova prescrizione è pure approdata nell’Aula di Montecitorio, lo scorso 6 novembre. Ma celebrato il rito della discussone generale, l’esame degli emendamenti e il voto finale sul testo sono misteriosamente slittati. E poi slittati ancora. Sulle prime, il silenzio. Poi la rivelazione: c’è di mezzo il non possumus dei presidenti di Corte d’appello di tutti e 26 i distretti giudiziari d’Italia. Sostengono, in una lettera inviata dieci giorni fa al guardasigilli Carlo Nordio e ai presidenti delle due commissioni Giustizia Ciro Maschio (Camera) e Giulia Buongiorno (Senato), che se la riforma entrasse in vigore d’emblée, cioè con i tempi canonici fissati in Costituzione, sarebbe un disastro. Ne va, dicono i capi di Corte, del Pnrr, perché l’immediato, improvviso impatto della prescrizione riformulata costringerebbe i loro uffici a ricalcolare i termini di estinzione per ogni singolo reato, con «tanto tempo di magistrati e personale amministrativo sottratto alle udienze» e distratto dal vero, unico e attuale obiettivo: abbattere il disposition time (cioè la quantità di sentenze in rapporto ai giudizi pendenti) e, soprattutto l’arretrato ultratriennale. Un’apocalisse giudiziaria.

Forza Italia e Costa furiosi, pure Via Arenula perplessa

Il quadro da catastrofe biblica è sapientemente disegnato dalle toghe. Che hanno una certa ascendenza. Di riapprodo in Aula della nuova prescrizione, al momento, non si parla: c’era inizialmente una data, il 12 dicembre, ma la legge per ora è stata espunta dall’agenda di Montecitorio. Salvo improbabili miracoli, riapparirà dopo Natale. Di mezzo c’è sì la Manovra, ma soprattutto l’allarmisno delle Corti d’appello. Forza Italia è incavolatissima: vede nel grido di dolore togato una «inopportuna e indebita ingerenza». La pensano così il vicepresidente azzurro della commissione Giustizia Pietro Pittalis, firmatario del testo base adottato dalla Camera, il capogruppo Giustizia Tommaso Calderone, e l’altra deputata forzista che siede in commissione, anche lei avvocata, Annarita Patriarca.

La pensa cosi soprattutto l’inviperito deputato di Azione Enrico Costa, che non fa parte della maggioranza ma fin dall’inizio ha unito, con gli altri deputati di Calenda e con Italia viva, le proprie forze a quelle del centrodestra per spazza via la Bonadede e la Cartabia, tanto da essere, con il meloniano Andrea Pellicini, relatore del provvedimento. Sono meno intransigenti sull’ipotesi di un’entrata in vigore “differenziata” gli altri due firmatari, con Pittalis, dell’emendamento che ha riformulato il nuovo impianto normativo, ossia Carolina Varchi di FdI e Ingrid Bisa della Lega. Ma il guardasigilli Nordio e il viceministro Sisto non sono meno perplessi dalla norma cuscinetto con cui le toghe vorrebbero ritardare la riforma. Non sembrano voler inteferire, nella complicata dialettica, i due sottosegretari, il meloniano Andrea Delmastro e il salviniano Andrea Ostellari.

Ma ciononostante la confusione c’è. Non nella testa dei decisori politici, ma nella sostanza delle cose. Perché è vero, se la riforma del centrodestra entrasse in vigore subito dopo il via libera in Parlamento (c’è in tutto questo sempre il passaggio in Senato da onorare, e state tranquilli che se si provasse a rendere solo formale quella lettura si scatenerebbe una rivolta delle opposizioni)ci sarebbe un bel po’ di calcolatrici da smanettare, nei Palazzi di giustizia. Ma è temibile anche l’altra prospettiva, accennata all’inizio.

Persino nella lettera dei presidenti di Corte d’appello si allude un po’ sibillinamente a una «inevitabile e perdurante incertezza interpretativa» che la riforma imporrebbe ai giudici. Il riferimento è, con ogni probabilità, proprio alla preoccupazione che unisce Nordio e Sisto: per alcuni imputati la nuova disciplina consentirebbe di far intervenire in appello (e al limite anche in Cassazione) l’estinzione del reato prima di quanto non avverrebbe con l’improcedibilità prevista dalle norme tuttora vigenti, ed è chiaro che quegli imputati chiederebbero legittimamente, attraverso un ricorso alla Consulta, di far valere la retroattività della riforma, considerato che la prescrizione è, come ricordato, istituto di diritto sostanziale.

La richiesta delle toghe ci porterebbe al 2026

Poi c’è da dire una cosa. Se davvero si pretende di armonizzare i tempi di entrata in vigore della riforma con le esigenze del Pnrr, vuol dire che la nuova prescrizione, o meglio l’opportuno ritorno alla prescrizione sostanziale dovrà slittare addirittura di tre anni, a dopo giugno 2026, tempo di scadenza degli obiettivi di efficienza giudiziaria da raggiungere in relazione al Pnrr. Una beffa.

Certo, il grido di dolore dei presidenti di Corte fa massa critica. Ma sull’altro piatto della bilancia c’è anche un rischio politico: non riuscire a portare a casa un obiettivo, la prescrizione, che sembrava il più praticabile nel campo della giustizia. A Meloni non fa piacere litigare con le toghe. Ma potrebbe cominciare a suonarle stonata anche l’impasse in cui puntualmente scivolano le leggi care al suo guardasigilli.