Spettabile Redazione, con riferimento all’articolo apparso sul Dubbio in data 16 maggio 2022, dal titolo “Così il tribunale ci ha negato il diritto di difesa in presenza”, desidero precisare quanto segue.

Premetto che sono venuto a conoscenza dello scritto in esame qualche tempo fa, ma solo oggi ho trovato il tempo di scrivere. Mi scuso, quindi, per la mancanza di tempestività.

Il giudice in questione sono io. Ciò posto, segnalo, anzitutto, che non ero titolare della causa alla quale si fa riferimento nell’articolo, ma ero in mera sostituzione, atteso che il ruolo apparteneva ad un magistrato temporaneamente applicato al Ministero, da quanto mi risulta. Di tale circostanza i difensori erano - o avrebbero dovuto essere ben consapevoli, essendo stato espressamente indicato nei miei provvedimenti.

Non essendo, dunque, titolare del fascicolo, mi era precluso qualsiasi provvedimento che potesse orientare l’esito della causa. Anche di questo i difensori erano - o avrebbero dovuto essere - a conoscenza. In ogni caso, ricordo di avere rappresentato la mia qualità di mero sostituto.

Ne deriva l’assoluta inutilità di una trattazione in presenza, dal momento che il mio provvedimento - ancorché la questione da esaminare potesse rivestire una particolare delicatezza non sarebbe stato diverso da un semplice rinvio per i medesimi incombenti, come ho effettivamente disposto. Mi sfugge, quindi, la ragione per la quale avrei dovuto scomodare gli avvocati costringendoli a recarsi in tribunale, dal momento che non avrei potuto agire diversamente da come ho agito.

Per completezza aggiungo che, in precedenza, sempre in relazione a procedimenti nei quali ero mero sostituto, avendo rinviato per i medesmi incombenti alla presenza dei difensori, la grandissima parte di questi ultimi si sono lamentati - oggettivamente a ragione - dell’assoluta inutilità di procedere ad una trattazione in presenza per ottenere un mero rinvio.

Il tutto, poi, senza considerare che, sulla scia delle misure dirette a contenere il rischio pandemico, le indicazioni dei capi degli uffici giudiziari sconsigliavano - a quell’epoca - la presenza degli operatori del diritto (avvocati, magistrati, personale amministrativo) ove non strettamente necessario.

Per inciso, voglio anche sottolineare che le cause a me assegnate vengono tutte trattate in presenza, proprio in quanto ritengo che la trattazione cartolare non sia rispondente alle esigenze di una difesa adeguata. Di più. Gli avvocati che hanno sollevato il rilievo di cui all’articolo de Il Dubbio, hanno chiesto al sottoscritto di assegnare il procedimento ad altro giudice.

Non mi permetto di esprimere valutazioni su tale istanza, ma ritengo, ad occhio, che ogni avvocato sappia perfettamente che l’assegnazione dei procedimenti sia prerogativa del capo dell’ufficio o, quanto meno, della sezione.

Ora, al di là delle doverose delucidazioni da me fornite, ciò che mi ha più colpito non sono stati i rilievi, ma le modalità con le quali la vicenda è stata rappresentata. Ho sbagliato tante volte, anche come giudice, e mi sono sempre assunto la responsabilità dei miei errori. Sono, tuttavia, costretto a rilevare che nessuno si è curato di interpellarmi per verificare se vi fossero dei motivi alla base del mio agire. L’impressione - non voglio accusare nessuno - è che vi sia una vaga tendenza al “sensazionalismo”, forse un po’ figlia dei nostri tempi.

Ritengo, però, che sia doveroso sempre instaurare un contraddittorio, anche elementare, soprattutto se l’articolo proviene da un giornale che del rispetto del contraddittorio e delle ragioni di tutte le parti fa la propria bandiera.

Personalmente, nel mio lavoro non ho mai chiuso la bocca a nessuno e ho sempre cercato, prima di tutto, di ascoltare ciò che i difensori dicevano, dato che il significato proprio del termine “udienza” è proprio questo: “luogo in cui si ascolta”.

Rimango a disposizione per eventuali chiarimenti che si dovessero rendere necessari. Con il massimo rispetto.