Per contrastare la montante ondata di populismo punitivo, Vittorio Manes e Nicolò Zanon hanno recentemente suggerito, dalle colonne de Il Sole 24 Ore, di introdurre nella Costituzione la previsione di maggioranze parlamentari qualificate per l’adozione di ogni nuova legge penale.

Proposta certamente interessante e suggestiva, ma non inedita, dato che già Enzo Musco, nel 2004, l’aveva formulata nel suo bel volume dal titolo “L’illusione penalistica”. Questo va sottolineato perché sono trascorsi inutilmente oltre vent’anni da quando Musco notava che “la legislazione penale non può più essere il frutto della mera discrezionalità politica di una maggioranza, ma necessita di un larghissimo consenso parlamentare, al fine di evitare abusi e prevaricazioni”.

L’esperienza passata dimostra che la concreta praticabilità dell’idea liberale di prevedere un procedimento legislativo speciale per le leggi penali è assai ridotta, per non dire velleitaria. Ciò non toglie che provare oggi a rilanciare l’originaria proposta sia comunque moralmente doveroso, pur nella consapevolezza che la stessa è già stata da tempo consegnata all’oblio dal decisore politico.

Per dare maggior forza alla riflessione, è certamente opportuno affrontare alcune questioni di carattere pregiudiziale, a partire dalla esatta perimetrazione della proposta.

Bisogna chiarire, anzitutto, se la logica sottesa alla richiesta di una maggioranza qualificata riguardi solo le nuove incriminazioni oppure ogni modifica, anche in favor, delle leggi penali.

La logica del sistema costituzionale sembrerebbe deporre proprio per questa seconda opzione, dato che la stessa ratio di una più ampia condivisione parlamentare non potrebbe essere negata nel caso in cui si ritenessero determinati beni giuridici non più meritevoli della maggior tutela penale.

Nel sistema penale sostanziale, il concetto di libertà personale non è autosufficiente, dovendosi sempre confrontare e bilanciare con tutti gli interessi che il legislatore vuole tutelare. Dunque, l’esigenza di quella ponderata valutazione si presenterebbe anche nel caso di riespansione della libertà personale a discapito degli altri beni originariamente protetti. Ciò significherebbe, ad esempio, che se fosse stata richiesta la maggioranza parlamentare dei due terzi, sulla falsariga di quanto già previsto per i provvedimenti clemenziali di amnistia e indulto, l’abrogazione dell’abuso d’ufficio non avrebbe trovato il necessario consenso nell’attuale composizione del Parlamento.

Bisognerebbe, inoltre, porsi il problema delle norme processuali direttamente incidenti sulla libertà personale: sarebbero anche loro attratte nella logica della proposta di riforma? Per l’evidente identità di ratio, ossia per assicurare un più solido presidio alla libertà, la risposta dovrebbe essere affermativa. Se così fosse, si registrerebbe, però, una paradossale eterogenesi dei fini: con tutta probabilità, la recente riforma sull’interrogatorio preventivo e sul gip collegiale non sarebbe stata approvata con l’iter parlamentare rafforzato.

A ciò si aggiunga che, anche volendo limitare la portata applicativa alle modifiche sfavorevoli, sarebbe spesso impossibile distinguere ex ante il procedimento legislativo in funzione del segno della riforma processuale: anzitutto, perché fino a quando il disegno di legge non è definitivamente approvato non se ne possono apprezzare compiutamente e stabilmente i contenuti; inoltre, risulterebbe difficile catalogare alcuni istituti che presentano una connotazione ancipite: ad esempio, l’interrogatorio preventivo che, per una parte della dottrina, va considerato, non a torto, “pericoloso” per l’imputato.

Vi è poi una questione che, per la sua portata, finisce per sovrastare nettamente tutte le altre. Se l’intervento penale dovesse essere sorretto da una larga convergenza politico-parlamentare, espressiva di un altrettanto ampio consenso popolare, la giurisprudenza, che non presenta alcuna forma di collegamento e di legittimazione con il voto popolare, non potrebbe certamente rimanere una fonte di produzione delle norme incriminatrici, come invece accade oggi grazie all’accettazione di un sistema che, in forma del tutto atipica e per linee interne, è divenuto di common law. Pensiamo, scegliendo nell’ampia casistica giurisprudenziale, alla violenza sessuale, il cui fatto tipico è integrato dalla mancanza di consenso, sebbene tale elemento non sia testualmente previsto dall’art. 609-bis c.p., oppure al concetto di rapporti parafamigliari che ha consentito l’applicazione dell’art. 572 c.p. ben oltre i limiti della famiglia e dei conviventi.

Bisognerebbe, quindi, accompagnare la riforma costituzionale con la netta preclusione di ogni forma di interpretazione creativa da parte della giurisprudenza e con un altrettanto rigido apparato di sanzioni nel caso di sconfinamenti. La tensione valoriale sarebbe insostenibile se al giudice, che non ha alcuna legittimazione popolare, si consentisse quello che sarebbe precluso al Parlamento, se non attraverso maggioranze qualificate. Infine, ma non da ultimo, la proposta di riforma sarebbe sterile a fronte di un populismo penale così diffuso da coagulare un consenso trasversale su proposte di legge lucro-elettorali, come quella oggi in discussione sul reato di femminicidio.

Viene quindi da chiedersi se sia opportuno ingessare l’intero sistema penale, anche nella sua evoluzione eventualmente più favorevole al reo, a fronte comunque di una composizione parlamentare che democraticamente rispecchia le tendenze della società attratta in larghissima maggioranza dalla risposta repressiva penale, senza distinzioni di segno politico. Il vero rimedio, probabilmente, sarebbe una rivoluzione culturale che oggi sembra pura utopia, ma l’utopia, come scriveva Eduardo Galeano, serve per continuare a camminare.