«In tutti i campi, in ogni settore, sono le singole persone, che contano, più della sovrastruttura di cui fanno parte. Vale per l’Arma dei carabinieri come per la magistratura. Tengo a dire altre due cose. In questi anni, la tensione per un’accusa e un processo iniziati nel 1997 mi hanno tenuto sempre vivo: forse devo dire grazie a tutto questo; e poi, soprattutto, se ci fossero stati ancora Giovani Falcone e Paolo Borsellino, nulla di quanto è avvenuto nelle attività giudiziarie relative alla mafia sarebbe accaduto, in questi ultimi venticinque anni».

Mario Mori sa, non lo nasconde, di aver servito lo Stato anche con il proprio sacrificio di imputato. Insieme con Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, ha sopportato con tenacia, rigore, straordinaria tenuta morale, più di quanto avrebbe potuto sopportarlo chiunque, il peso del lunghissimo processo sulla presunta trattativa Stato- mafia, dal quale giovedì scorso è uscito definitivamente assolto in Cassazione, insieme con gli altri imputati, compreso l’ex senatore e cofondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Mori non perde la serenità, la forza, persino l’ottimismo che l’hanno evidentemente sorretto finora. Ma neanche risparmia critiche a chi ha ritenuto che una complicità, negli anni bui della mafia stragista, potesse annidarsi nel Ros dei carabinieri.

Generale Mori, dopo un quarto di secolo da imputato, che idea ha della giustizia italiana?

Io resto fermo sui principi che mi hanno consentito di andare avanti, e nei quali ho sempre creduto. È molto semplice: l’Arma dei carabinieri, la giustizia, lo Stato, sono sovrastrutture. Poi c’è chi ne fa parte. E certo, possono capitare gli incidenti di percorso: il mio è stato effettivamente un po’ prolungato Come ha resistito?

Si sorprenderà di quanto dico, ma io ho bisogno di un avversario. Nel senso che nella mia vita il confronto con una posizione anche radicalmente avversa alla mia mi ha sempre dato forza. Ho sempre avuto una controparte, in questi venticinque anni. Non sono stati pochi. Ma mi verrebbe da dire che potrei ricominciare tutto daccapo. È la mia vita, è stata la mia vita.

Stare in tensione, oppresso da un’accusa tremenda come quella di aver minacciato lo Stato per conto della mafia stragista, lo ha tenuto vivo, dice?

E sì: sono sempre stato in tensione, forte dei miei convincimenti, della consapevolezza di essere nel giusto. Soprattutto, di aver avuto comportamenti consoni al mio incarico, alle mie funzioni, e di non essere mai andato fuori dal perimetro. Sì, avevo bisogno di un avversario, tanto che subito dopo la sentenza della Cassazione mi sono detto: e ora che faccio?

Ritiene che una parte della magistratura abbia pensato di poter ricostruire la storia del Paese, oltre che perseguire specifiche condotte individuali?

Io ho presente la Costituzione: e secondo la Costituzione, il magistrato deve applicare la legge, non estenderne il significato. In ogni caso, l’idea di dover fare luce su una fase della storia italiana avrebbe dovuto riguardare le competenze non della magistratura, ma di una commissione parlamentare d’inchiesta. Ecco, quella sarebbe stata una strada corretta per provare a comprendere il senso di quanto avvenuto nella storia del nostro Paese in quegli anni. Non capisco invece, un’attività giudiziaria che si proponga un obiettivo del genere.

Le indagini sulla cosiddetta trattativa hanno suscitato, per lungo tempo, grandi consensi e aspettative diffuse: un fenomeno del genere si spiega con quello stesso sentimento di diffidenza nei confronti delle istituzioni che ha accompagnato prima le inchieste di Mani pulite e poi le indagini sulla politica degli anni successivi?

Di sicuro non credo che un clima del genere possa aver condizionato le scelte della magistratura. Altrimenti ci saremmo trovati di fronte a un pericolo molto grave. La magistratura è un’altra cosa e ha ben altri compiti.

I magistrati che hanno condotto indagini sulla mafia sono stati esposti a rischi tremendi. La consapevolezza di essere un bersaglio può incidere sulle scelte di un magistrato?

Ritengo che nessuno possa farsi condizionare nell’attività che svolge. Nella mia vita professionale ho corso dei rischi non trascurabili. Se me ne fossi sentito schiacciato, non avrei potuto fare quel lavoro. D’altra parte, ho dovuto fare i conti con la sofferenza di questi anni, che non è stata lieve.

Cosa direbbero Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con i quali lei ha lavorato, di questa sentenza?

Le rispondo indirettamente: se ci fossero stati loro non sarebbe avvenuto nulla di quanto è avvenuto in questi ultimi venticinque anni nell’ambito dei processi relativi alla mafia. Sarebbe stata tutta un’altra storia.

Crede che Falcone e Borsellino abbiano lasciato tracce, per le indagini su Cosa nostra, che non sono state seguite abbastanza?

Sicuramente il filone “Mafia e appalti” poteva essere valorizzato meglio.

Ormai è tardi?

Sono scomparsi quasi tutti, quasi tutti coloro che avrebbero potuto essere un riferimento per esplorare quelle ipotesi. Io all’epoca dell’indagine “Mafia e appalti”, sulla quale lavorai, ero un giovincello, ora ho 83 anni. Vengono a mancare le testimonianze. La famiglia Borsellino svolge un’opera meritoria e nobilissima, ma le possibilità di arrivare a dei risultati si sono ridotte terribilmente.

I giudici del processo “trattativa” sono stati un esempio di autonomia e indipendenza, non crede?

Hanno dovuto fare i conti con una pressione ambientale notevole, si sono trovati davanti una Procura importantissima come quella di Palermo. Hanno esaminato le carte, ascoltato i testimoni e redatto in tutta onestà la loro sentenza. Dai giudici palermitani ho ottenuto tre assoluzioni.

Su “Mafia e appalti” lei dice che c’è ormai poco da sperare: e per la possibilità di fare luce su via D’Amelio?

Mi auguro vi sia qualcuno in grado di trovare il bandolo, ma anche qui non vedo molte possibilità.

Un’ultima parola sugli avvocati che l’hanno difesa fino all’assoluzione definitiva: alcuni giovani, come Basilio Milio.

In Cassazione sono stato difeso da un grande luminare come il professor Vittorio Manes. Ho iniziato ad affrontare le mie vicende penali assistito dall’onorevole Pietro Milio, padre di Basilio. Dal padre, la mia difesa è passata al figlio, che ho visto crescere da che era un giovanissimo avvocato fino a diventare un grande professionista, animato da una fiducia e da una forza straordinarie.

Non voleva che il lavoro del padre restasse incompiuto.

Esatto.