Il corpo delle donne è sempre bottino di guerra, sulla striscia di Gaza o in un piccolo parco di Catania. In guerra lo si dà per scontato, e le cronache degli inviati lo mettono quasi tra due virgole, il fatto che il primo atto degli invasori è lo stupro sulle donne. Ma anche in tempo di pace questo tipo di guerra è permanente.

Il corpo della donna è lì, a disposizione di gruppi di piccoli vigliacchi, perché da soli la certezza della propria virilità può sempre vacillare. Sono italiani, sono stranieri, sono adulti, sono minorenni. Sono responsabili del reato di violenza sessuale di gruppo, che è un reato autonomo, articolo 609 octies del codice penale, pena da 8 a 14 anni. Che si applica quando tra le persone del gruppo ci sia non solo un accordo sulla violenza sessuale, ma anche la simultanea ed effettiva loro presenza nel luogo e nel momento della commissione del reato.

Nel 1996, quando dopo una lunga battaglia parlamentare, le donne di tutti i gruppi politici riuscirono a fare approvare quella legge che trasformò la violenza sessuale da reato contro la morale pubblica in reato contro la persona, si discusse molto sul punto. In particolare le donne giuriste e anche alcuni magistrati dell’area più garantistica delle toghe, erano contrari a quell’articolo 609 octies che prevede la violenza di gruppo come fattispecie autonoma e diversa dal concorso. È prevalsa una logica da funzione educativa della norma. Perché, e lo si vedrà nelle battaglie legali quando si celebreranno i processi, il ruolo di chi, pur non compiendo direttamente l’atto sessuale, sta comunque lì, e magari incita o addirittura tiene ferma la ragazza mentre l’altro la penetra, non è secondario. È in toto complice, corresponsabile.

Nel caso di Catania, dove sette ragazzi hanno aggredito una ragazzina di 13 anni che invano invocava pietà, e il suo amico diciassettenne picchiato, immobilizzato e costretto a guardare lo scempio sul corpo della sua amica, è molto difficile scindere le responsabilità. Sul piano processuale sarà complicato verificare ogni gesto. Ma sarà molto importante che la sanzione non risparmi nessuno. Non per buttare via la chiave, ma perché sia applicata una sanzione che preveda tempi lunghi di rieducazione. Lunghi e severi. Perché ciascuno di quei ragazzi, anche se ci fosse uno di loro che non solo non ha partecipato fisicamente alla violenza ma che magari ha girato la testa dall’altra parte, attui una vera rivoluzione culturale nella propria vita.

Non sarà il carcere il soggetto che potrà attuare efficacemente questo cambiamento. Ma qualcosa di drastico andrà applicato. E qui si apre la seconda dolorosa questione. Non fingiamo sia irrilevante il fatto che i sette ragazzi di Catania siano egiziani, da poco arrivati in Italia. È invece molto importante. Non perché, come abbiamo visto in altre recenti circostanze, non esistano bande di stupratori ragazzini, anche minorenni, italiani, ma perché in questo caso il percorso sanzionatorio dovrò essere di totale educazione. Educazione primaria, non ri-educazione. Perché la società e la cultura da cui provengono, dove la legge fondamentale, la sharia, cancella il corpo della donna trattandolo come impuro e quindi da nascondere, rende a questi ragazzi difficile comprendere la gravità del loro atto.

Abbiamo quindi a questo punto due diverse culture a confronto. La prima, quella del mondo occidentale, quella in cui le donne sono in genere libere ed emancipate, ma in cui la mentalità maschile ritiene spesso che il corpo femminile sia a loro disposizione. Che una pacca sul sedere in fondo non sia che uno scherzo. Che la molestia ricattatoria del capufficio sulla dipendente sia quasi un diritto. Che il “sì” pronunciato dalla donna sull’altare o in Comune coincida con l’accettazione sessuale per sempre, anche con la sopraffazione. Che un successivo “no” dia all’uomo qualunque diritto, fino alla tragedia del femminicidio. Questa è la società in cui viviamo.

E poi abbiamo anche il mondo islamico, ormai importato anche in occidente, fortemente omofobico, che oltre a negare molti diritti alle donne, ne cancella l’esistenza stessa del corpo. Il corpo tentatore, diabolico, che va tenuto nascosto e coperto dalla testa ai piedi, di proprietà solo degli uomini di famiglia, il marito, il padre, i fratelli. Abbiamo visto quanto sia forte questo senso proprietario e collettivo, fino a spingersi a zii e cugini, nella storia di Saman, la ragazza pakistana uccisa tre anni fa a Novellara, vicino a Reggio Emilia.

Come può intervenire la giustizia quando il gruppo che commette il reato di violenza sessuale proviene da questo tipo di cultura per cui rischia di vedere in ogni donna che non sia rinchiusa in un bozzolo di indumenti che la rende prigioniera e invisibile, e dunque inviolabile, una sorta di prostituta con cui fare sesso gratis? E senza ritenere di violare alcun codice? Quale sanzione saprà entrare nel cervello di questi ragazzi, prima che nelle loro vite, per imporre loro di rispettare donne sconosciute del Paese che li ospita, dal momento che non sono stati educati a rispettare neppure le proprie madri e le proprie sorelle se non rinchiudendole nel burka-prigione?

Condanniamoli pure, dunque, anche con questa norma sulla violenza di gruppo di dubbia costituzionalità e aderenza al giusto processo, ma non sarà il carcere la soluzione. Sarà soltanto una sorta di corso scolastico, lungo e faticoso, che produca, per tutti, un vero cambiamento di mentalità. Non impossibile, basterebbe volerlo.