Marta Cartabia non ha certo inflazionato la propria immagine pubblica, una volta lasciato l’incarico di guardasigilli. È tornata a esercitare la vocazione di illuminata studiosa dei principi costituzionali, nella sua università milanese della Bicocca. Con rare presenze all’esterno dell’accademia.
Ha voluto fare uno strappo alla regola per “L’inganno”, il libro di Alessandro Barbano che svela gli abusi dell’antimafia. La presidente emerita della Consulta ha scelto una cornice splendida per derogare all’autoconsegna: la Sala della Regina di Montecitorio. È lì che il giornalista divenuto attore principale del dibattito sulla giustizia ha tenuto una nuova presentazione del proprio saggio. Al fianco di una figura del calibro di Cartabia ha avuto la fortuna di trovare una personalità di spessore come Giorgio Mulè a fare gli onori di casa, ha quindi scelto una delle migliori voci dell’accademia e dell’avvocatura penalistica, il professore dell’Università di Bologna Vittorio Manes, e un magistrato. Non un magistrato qualsiasi: Raffaele Piccirillo, oggi sostituto procuratore generale della Cassazione e fino a pochi mesi fa, per più di quattro anni consecutivi, capo di gabinetto al ministero della Giustizia, prima con Alfonso Bonafede e poi con la stessa Cartabia. «Nella sceneggiatura dell’incontro sono colui che dovrebbe fare la parte del cattivo», ha scherzosamente esordito Piccirillo quando ha preso la parola. Ma la sceneggiatura è stata sorprendente. Non tanto per Mulè, la cui onestà intellettuale è nota: con l’eco ancora percepibile degli anatemi lanciati contro Barbano da Gian Carlo Caselli e Nando Dalla Chiesa, il vicepresidente della Camera ha detto che proprio Montecitorio è «il luogo dove le idee si confrontano liberamente nel sacro rispetto della Costituzione», e che quindi non si sarebbe rischiata una scomunica come quelle inflitte nei giorni precedenti.
Non è stata una sorpresa l’eleganza della lezione offerta da Manes, che ha accordato l’orgogliosa replica del giurista dinanzi al lapidario disprezzo dei giustizialisti («coniano di continuo nuove espressioni, “borghesia mafiosa”, “populismo garantistico”...) con l’umana vicinanza agli innocenti colpiti dalle misure di prevenzione, vero epicentro de “L’inganno” ( «una vita segnata da una vicenda penale ingiusta diventa una vita di scarto, ci si può rialzare ma spiritualmente si resta un’anima morta» ).
E poi Cartabia, che nella propria arringa ha intrecciato apprezzamenti e controdeduzioni. I primi, precisati subito, li ha rivolti alla «verve polemica, molto energica, del libro», che però, ha detto, «è documentato e capace disvelare problemi seri in modo serio. Un libro da prendere assolutamente in considerazione». Non ha poi risparmiato le repliche, quanto si è voluta difendere dai passaggi de “L’inganno” che la chiamano in causa direttamente, «in particolare perché ho ricordato, durante il mio mandato di ministra della Giustizia, che la nostra legislazione antimafia è universalmente apprezzata: è così, potrei citare le parole del guardasigilli francese Dupond- Moretti di fronte al riuso di una villa dei Casamonica per l’assistenza ai bambini autistici. Ed è così», ha aggiunto la presidente emerita della Consulta, «anche nel senso che tutte le Corti chiamate a vigilare sui principi fondamentali non hanno fin qui rilevato alcuno strutturale conflitto fra le misure antimafia, la Costituzione e le Carte dei diritti».
Cartabia è una costituzionalista, e non si è sottratta dal rappresentare il punto di vista del mondo da cui proviene rispetto alle contraddizioni denunciate da Barbano. Ma Piccirillo, appunto, nella “sceneggiatura” doveva fare altro, «il cattivo». E invece.
E invece Piccirillo ha ribaltato clamorosamente il canovaccio dei suoi colleghi, di Caselli, ha spiazzato anche la severità di Melillo, intervenuto con Giuliano Amato alla “prima” romana de “L’inganno”. Ha detto, l’ex capo di gabinetto di Cartabia e, non lo si dimentichi, di Bonafede, che intanto “L’inganno” non è un libro da bandire, perché «è un’analisi sul potere, e il controllo sul potere è una cosa necessaria, che a me interessa». Non solo: «Non è appropriata la critica di chi pensa di cavarsela col discorso “eh, però c’è la mafia, la necessità di contrastarla...”: non mi convince. Intanto occupiamoci di quest’altro problema». E già la distanza dai colleghi più indignati è messa in chiaro. «Occupiamoci», dice Piccirillo, «di quanto scrive Barbano: del sacrificio delle garanzie imposto con le misure di prevenzione, a fronte di un sistema che non produce risultato».
Ed è una cosa che dovrebbe far rimbombare le stanze della magistratura antimafia. Perché Piccirillo, lo ricorda lui stesso, non è un osservatore esterno: è stato direttore generale degli Affari penali a via Arenula. «Da lì», spiega, «avevo a disposizione la banca dati dei beni sequestrati. Ebbene, le informazioni erano e sono tuttora disallineate, illeggibili. Non sappiamo quale sia esattamente il valore del patrimonio affidato all’Agenzia. Sappiamo che per molte aziende il riuso è impossibile, perché la loro matrice inquinata dalla criminalità ne pregiudica la capacità di stare sul mercato. E poi dovremmo fare i conti con la dequalificazione degli amministratori giudiziari, con le improvvisazioni dei giudici: c’è da chiedersi, in certi casi, se avrebbero gestito anche le loro proprietà personali, con lo stesso avventurismo adottato per i beni prossimi alla confisca». Parole dirompenti. Con cui dovrà fare i conti chiunque volesse trattare Barbano e il suo libro come un’indegna apostasia. E se solo sarà servito a far emergere, nella magistratura, queste contraddizioni, a “L’inganno” sarà doveroso essere grati.