«Il quarto giorno il mare è diventato brutto. Abbiamo pregato e basta. Dopo l'urto ognuno ha cercato di salvasi da solo, aggrappandosi a dei pezzi di legno della barca». A raccontarlo venerdì uno dei superstiti del naufragio di Steccato di Cutro, nel quale hanno perso la vita almeno 8y persone. Il giovane è stato ascoltato nel corso dell’incidente probatorio davanti ai giudici del Tribunale dei minorenni di Catanzaro che devono stabilire la responsabilità del 17enne pakistano indicato come uno degli scafisti.

«Prima di partire - ha spiegato - gli scafisti non ci hanno detto se l'arrivo sarebbe stato sicuro o insicuro, sulla spiaggia o in un porto. Ma noi contavamo sul fatto che appena giunti nelle acque italiane ci avrebbero salvato. Nessuno degli scafisti ha aiutato noi passeggeri naufraghi dopo l'urto, c'erano solo due carabinieri in spiaggia che aiutavano. Anche io ho salvato persone. Ho nuotato dieci, dodici minuti per arrivare a terra».

Quella di venerdì è stata la prima delle tre giornate calendarizzate per l’incidente probatorio, durante il quale il 17enne ha ribadito la propria innocenza. Secondo l’accusa, avrebbe avuto un ruolo determinante prima come organizzatore del viaggio e poi durante la navigazione. Accuse che il giovane, assistito dall’avvocato Salvatore Perri, ha respinto. E secondo il legale si tratterebbe di un capro espiatorio, al pari dell’altro pakistano finito in carcere, anch’egli suo assistito. I tre superstiti hanno confermato che a gestire la navigazione erano tre turchi e un siriano, così come dichiarato nell’immediatezza anche da molti altri naufraghi. Il 17enne si sarebbe dunque limitato a “tradurre” gli ordini impartiti dagli scafisti. Ma non solo: uno dei testimoni sentiti venerdì, già una settimana prima del tragico sbarco, aveva tentato di imbarcarsi da Smirne, tornando indietro perché la barca attesa non è mai arrivata. Il giovane ha dunque fatto ritorno a Istanbul in taxi proprio assieme al 17enne, con il quale ha diviso la spesa per il viaggio.

«Mi hanno fatto stare sempre sottocoperta - ha raccontato un altro superstite -. Non mi sono reso conto che il mare era così tanto agitato, da sotto non si sentiva. Poi mi sono molto preoccupato. Non ho ancora pagato il prezzo: 8.100 euro. Gli scafisti mi hanno rassicurato ha aggiunto -, ma da chi aveva affrontato il viaggio prima di me sapevo che, giunti nelle acque italiane, saremmo stati salvati. Sapevo che l'Italia protegge. Quando sono arrivato sulla spiaggia c'erano solo un pescatore e due carabinieri». Il terzo superstite ha raccontato i momenti successivi allo schianto sulla secca: una volta spezzatasi la nave, è stato tra i primi a buttarsi in acqua. «Ero con due nipoti - ha raccontato - uno di 22 e l'altro di 6 anni. Siamo rimasti in acqua tre ore. Dopo un'ora il bambino è morto di freddo. Ci sono volute due ore perché arrivasse la Guardia costiera». Tra i migranti c’erano diversi pakistani, aveva spiegato l’avvocato Perri nei giorni scorsi al Dubbio, «ed è palese che l’unico tra i fermati ad essere stato identificato con certezza, grazie anche al contributo dei miei assistiti, è il turco, aggredito sulla spiaggia dai sopravvissuti davanti agli occhi delle forze dell’ordine». Ad incastrare i due giovani pakistani assistiti da Perri, dunque, il loro farsi “tramite” rispetto alle richieste degli scafisti. «Una cosa assolutamente frequente negli sbarchi: come potrebbero quattro scafisti tenere a bada, da soli, 180 persone? I miei assistiti hanno pagato al pari degli altri per partire e non si sono sottratti alla ricerca dei responsabili. Perché si parla di componente strutturale pakistana se è certo, da oltre 10 anni, che gli indizi per identificare gli scafisti stanno nell’eccentricità della nazionalità, il possesso di documenti di riconoscimento e di mezzi per la fuga? Non vorrei che, proprio perché ci sono tante vittime, si cerchi in qualche modo un contrappeso. Non sarebbe giusto. Si tratta di disperati, glielo assicuro».