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Tutto da rifare. La Corte di Cassazione ha annullato le assoluzioni di Renato Cortese, Maurizio Improta, Francesco Stampacchia, Luca Armeni e Vincenzo Tramma nel processo sull'espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua (di sei anni, all’epoca dei fatti) avvenuta a Roma dieci anni fa, nel 2013.
I giudici della Quinta sezione penale della Cassazione hanno accolto il ricorso della Procura generale di Perugia come sollecitato dalla procura generale della Cassazione che aveva chiesto di annullare con rinvio la sentenza pronunciata il 9 giugno 2022 quando il collegio, presieduto da Paolo Micheli, aveva assolto «perché il fatto non sussiste» dall'accusa di sequestro di persona, ribaltando il verdetto di primo grado, tutti gli imputati. I supremi giudici hanno così disposto un nuovo processo davanti alla Corte d'Appello di Firenze.
La vicenda risale al maggio del 2013, quando Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, viene prelevata dalla sua abitazione romana e consegnata alle autorità di Astana (che formalmente cercano solo il marito) insieme alla sua bambina. Entrambe verranno “deportate” in patria nel giro di poche ore a bordo di un aereo messo a disposizione in fretta e furia dal Kazakistan. Per i giudici di primo grado, quell’espulsione fu un vero e proprio «rapimento di Stato», organizzato dalle forze di polizia traendo «in inganno» la Procura Roma, che diede il nullaosta all’operazione.
Furono infatti il pm Eugenio Albamonte e il procuratore capo Giuseppe Pignatone a a firmare l’autorizzazione all’espatrio della donna. Un nulla osta prima concesso a voce a Cortese, poi revocato telefonicamente per rapidissimi accertamenti e infine autorizzato in forma scritta, procedura anomala, come ammesso dallo stesso Albamonte in aula. Ma per la Corte d’appello di Perugia, che aveva ribaltato l’esito e le condanne del primo grado, nessun «rapimento di Stato» si era consumato, il «fatto non susssiste».
Ora però la Cassazione ribalta ancora tutto: serve un nuovo processo davanti alla Corte d'Appello di Firenze. Non si chiude dunque una vicenda che 10 anni fa aveva fatto discutere per le modalità dell’espatrio lampo disposto nei confronti di una donna e della sua bambina e per la caratura degli imputati. A cominciare da Renato Cortese, a lungo impegnato nella lotta alla mafia e alla ’ndragheta, che può vantare sul curriculum la cattura di pezzi da novanta di Cosa nostra del calibro di Bernardo Provenzano e Giovanni Brusca. Due gemme, per un investigatore, poi oscurate da accuse molto pesanti legate a un’altra “cattura”: quella di una donna e una bambina.
«L'annullamento della sentenza che ha assolto, “perché il fatto non sussiste”, i colleghi che hanno operato nel complesso caso Shalabayeva ci lascia addolorati e profondamente rammaricati», scrive in una nota Enzo Letizia, segretario dell'Associazione nazionale funzionari di «Al riguardo, siamo fermamente convinti che l'operato dei colleghi in merito a quanto verificatosi, in quei giorni del maggio 2013, sia stato dettato solo dal pieno rispetto delle regole vigenti, partendo da una “red notice” dell'Interpol per la cattura di un latitante e finendo con il procedere ai necessari adempimenti di legge relativi all'espulsione della moglie dello stesso, accompagnata dalla figlia minorenne, in possesso di un passaporto giudicato falso dagli specialisti».