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Un secolo fa, mese più mese meno, allo scrittore Max Brod viene recapitata una lettera spedita da un vecchio amico conosciuto all’università ventidue anni prima, deceduto da poco: «Carissimo Max, la mia ultima preghiera: tutto quello che si trova nel mio lascito (dunque nelle librerie, nell’armadio della biancheria, nella scrivania a casa e in ufficio, o dovunque qualcosa dovesse esser stato portato via e che ti capiti a tiro), diari, manoscritti, lettere di altri e mie, disegni, ecc., brucialo interamente e senza leggerlo, come anche tutti gli scritti e i disegni che tu, o altri a cui dovessi chiederlo a nome mio, possedete. Chi non voglia consegnarti le lettere, dovrebbe almeno impegnarsi a bruciarle di persona».
Il firmatario della richiesta risponde al nome di Franz Kafka, il boemo dalla scrittura nevrotica, il bambino taciturno e solitario nato da una famiglia proprietaria di una ditta di commercio, ma allevato dai domestici. Cresce a Praga, nell’Altstad, la città vecchia dove si mescola cultura tedesca e ceca; in un perfetto esempio di borghesia ebraica occidentalizzata. Studia legge, strada pressoché obbligata per un giovane ebreo che disdegna il commercio; annota: «Studiai dunque giurisprudenza. Ciò vuol dire che un paio di mesi prima degli esami, con abbondante sciupio di nervi, il mio spirito si nutrì di segatura che oltre a ciò era già masticata in precedenza da mille bocche».
Diligente suddito dell’impero asburgico, tirocinante presso uno studio legale, s’impiega prima nel Tribunale correzionale, poi alle “Assicurazioni generali” di Trieste, infine in un’agenzia specializzata in infortuni sul lavoro. Sbriga la quotidianità tediosa del funzionario parastatale, schiavo della burocrazia e delle convenzioni sociali che ne inibiscono l’innata aspirazione: «Vedo che tutto dentro di me sarebbe pronto per un lavoro poetico, il quale sarebbe una soluzione divina e il vero modo di acquistare vita, mentre qui in ufficio per colpa di una pratica così miserabile devo privare di un pezzo di carne un corpo capace di tanta felicità».
Soggiorna sui laghi del nord Italia, visita Berlino, Parigi, Vienna, frequenta dei teatranti jiddish che ne accrescono la cultura ebraica, tuttavia l’incombente figura paterna gli pesa addosso, l’aspro rapporto con l’autoritario genitore, rende il ragazzo oltremodo introverso. La crepa tra Beruf (professione) e Berufung (vocazione letteraria) si acuisce specie quando si ritrova a dover amministrare anche l’azienda di famiglia.
Neppure la vita sentimentale lo soddisfa. Si fidanza con la berlinese Félice Bauer, tuttavia il rapporto dura appena un trimestre; la compagna gli è distante non soltanto geograficamente. Egli stesso ne estrinseca le profonde diversità: «Non cedo in alcuna delle mie esigenze per quanto riguarda una vita stravagante, calcolata unicamente in vista del mio lavoro; lei sorda a tutte le mute preghiere, esige una vita mediocre, in un appartamento confortevole, e un interesse da parte mia per l’azienda. Rimette all’ora giusta il mio orologio che va avanti un’ora e mezza da un mese». La relazione con Félice riprende durante un soggiorno a Marienbad, ma dura meno della precedente. Secondo la caparbia passione di Kafka è la scrittura “la vita vera”, una spinta totalizzante, quasi maniacale, un martirio attraverso il quale ambire alle conoscenze supreme.
Quando gli diagnosticano la tubercolosi, vista la gravità della prognosi, ottiene il pensionamento anticipato e trascorre le stagioni tra i necessari ricoveri ospedalieri e i benefici della campagna. Conosce Milena Jesenskà-Pollak, scrittrice, che intuisce certi malesseri esistenziali soprattutto dopo la lettura dei Diari, quaderni ai quali Kafka, dal 1910 al 1923, affida i propri dolori. Tra i due s’instaura un intimo scambio epistolare, nonché un tenero sentimento, le confessa: «Io cerco sempre di comunicare qualcosa di non comunicabile, di spiegare qualcosa di inspiegabile, di parlare di ciò che ho nelle ossa e che soltanto in queste ossa può essere vissuto». Il legame, ad ogni modo, risulta irrealizzabile, Milena è già sposata. Durante una degenza sul Baltico conosce Dora Dymant, un’ebrea polacca assieme alla quale si trasferisce a Berlino, vivendo un periodo di amore e serenità. Sciaguratamente la calma dell’anima è fugace, il 3 giugno del 1924 i polmoni collassano definitivamente nel sanatorio di Kierling, in Austria. Viene sepolto nel cimitero ebraico di Praga, non ha compiuto nemmeno quarantuno anni.
L’incolore esistenza del povero Franz contribuisce a una cronica insonnia che lo istiga a scrivere di notte, ore nelle quali i doveri giornalieri lasciano libertà creativa. Nel 1904 redige le novelle Preparativi di nozze in campagna e Descrizione di una battaglia, quest’ultima appare sulla rivista Hyperion; nel 1912 pubblica la raccolta: Meditazione, quattro anni dopo il racconto: La condanna, seguito dal celeberrimo La metamorfosi.
Nel 1919 partorisce la seconda raccolta Un medico di campagna e la novella Nella colonia penale, poco dopo la morte esce la raccolta: Il digiunatore. Opta sistematicamente per la forma del racconto, più o meno breve, parte da un quotidiano che si converte in inquietudine, da dettagli che trascendono il realismo, sfiorando l’inaudito. Attento alla logica dell’invisibile, anticipa il Surrealismo realizzando il proprio impegno intellettuale attraverso un meticoloso lavorio di autoanalisi. Sforzi poco compresi sia dai critici, sia dai lettori suoi contemporanei. Metodico, consegna alle stampe soltanto ciò di cui è qualitativamente convinto, quel che resta nel cassetto chiede di distruggerlo.
L’amata Dora rispetta le ultime volontà, l’amico Brod affatto; intuendone il valore letterario, trascorre il resto dei giorni nell’esegesi dei manoscritti. Dal mucchio di carte emergono anche tre romanzi, un’atipicità nella bibliografia kafkiana: L’America, inizialmente intitolato Il disperso, Il processo e Il castello. Iniziati in momenti diversi, nessuno portato a conclusione. Emblematico, e dagli ambigui significati, appare Il processo, steso tra l’estate del 1914 e la primavera del 1915, durante un momento cardine nella vita dell’autore. Ha finalmente abbandonato la casa paterna, rotto il fidanzamento con Félice e, sebbene la guerra contagi il mondo, trova la giusta predisposizione letteraria.
I Diari, usciti postumi nel 1949, forniscono preziosi indizi per intuirne la genesi. L’incipit è conosciuto, immediato e punta diritto al sodo: «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato». Josef K. Lavora come procuratore in una banca, sono due gli agenti in borghese che gli comunicano d’essere l’imputato di un processo, ma non viene né trattenuto, tantomeno notificata l’accusa. Il protagonista è convinto si tratti di un malinteso e di poter fermare prontamente la macchina giudiziaria, ma sbaglia di grosso. Muovendo da scenari prossimi all’esperienza comune, e senza segni premonitori, la trama sconfina nell’inverosimile, nell’insolito, nell’illogico dove l’incredulità rende disagevole qualsiasi codificazione. Mancano oggetti, persone o situazioni soprannaturali, tutto è talmente assurdo ed enigmatico da rientrare in un universo coerente, permettendo all’alienazione di dilagare, all’allucinata brutalità dei fatti di assumere colori angosciosi.
Non è un romanzo fantastico, non rientra minimamente nelle intenzioni dell’autore, così il lettore segue le peripezie del Signor K., senza la piena convinzione che si tratti di sogno o realtà. Nulla rompe il dubbio, la maestria di Kafka aumenta gradualmente la tensione tramite un’aggettivazione essenziale, una prosa asciutta, ricorrendo speso al discorso libero indiretto, quasi somigliante a un monologo interiore. Il protagonista assume il ruolo del testimone oculare, eppure non spetta a lui il compito di raccontare la propria tragica sorte, l’uso della terza persona introduce un narratore di cui si ode la voce, senza mai intravedere la sagoma.
Una presenza oggettiva che non giudica, nemmeno analizza, ma che conosce i pensieri del malcapitato, perfino il disagio nutrito da un reato non commesso, da una colpa ignota. K. è costretto a difendersi da un potere superiore e crudele, incarnato da occhi indifferenti, da volti algidi: lo studente Berthold, la signorina Burstner, l’infermiera Leni, il commerciante Block, l’avvocato Huld, lo zio, il bastonatore, l’industriale, il pittore. Ostacoli ingannevoli in una lotta illusoria, devoti servitori di una burocrazia ciecamente arbitraria, intenzionati ad addomesticare qualsiasi resistenza psicologica, decisi a salvaguardare un sistema sadico e corrotto.
Indifeso e traumatizzato il signor K. viene paradossalmente trascinato sul banco degli imputati, sul ciglio della desolazione fino alle estreme conseguenze, fino all’irrevocabile condanna. Un romanzo apparso in libreria nel 1925, una storia dalle molteplici ipotesi interpretative, un archetipo metafisico, nel quale non alberga mai la pietà. Un capolavoro edito in Italia il libro nel 1933 da Frassinelli, tradotto da Alberto Spaini e che lascia strascichi lunghi un secolo, oltrepassando i confini letterari, diventando ispirazione per altre grandi menti. Nel 1962, infatti, il regista Orson Welles ne ricava un bianco e nero nel quale Anthony Perkins indossa i panni di Joseph K.. Anche se la trama non risulta troppo fedele al romanzo, specialmente nel finale, lo sguardo visionario del regista statunitense registra fotogrammi dalla smisurata carica simbolica, glorificando le tormentate pagine dello scrittore ceco.
Tra le tante opere incompiute lasciate da Kafka, Il processo è certamente tra le più finite, infatti sono soltanto sei i capitoli incompleti sui quali Brod attuò un rispettoso “processo” di integrazione. Tra gli altri fogli che scamparono alla distruzione, e sui quali l’esecutore testamentario lavorò alacremente per quasi tre decenni, compaiono: la raccolta Durante la costruzione della muraglia cinese (1931), Lettera al padre (1952), cento pagine scritte e mai spedite; Lettere a Milena (1952) l’epistolario con l’autrice slava, Quaderni in Ottavo (1953) una fitta raccolta di appunti e Aforismi da Zürau (1931), tra i quali uno risulta estremamente calzante: «Da un certo punto in là non c’è più ritorno. Ed è questo il punto da raggiungere». Due brevi frasi, un granitico pensiero, intento non unicamente letterario.