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All'inizio c'è la metafora dell'indiano. Una metafora che evocava immediatamente la vittima più evidente del sistema yankee, capitalista, occidentalista. Nel 1970, del resto, un celebre libro aveva scosso la coscienza dell'Occidente e riposizionato l'immagine degli indiani d'America. In Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, Dee Brown - uno dei più apprezzati storici del West - aveva ricostruito la storia del lungo genocidio dei pellerossa sino al massacro del 29 dicembre 1880 che segnò la definitiva sconfitta storica dei nativi americani. Fino ad allora si era abituati a leggere l'epopea western dal solo punto di vista dei conquistatori anglosassoni, degli americani bianchi, degli wasp (che tanto ora vengono solleticati da Donald Trump). Dee Brown costrinse invece a compiere l'operazione inversa: a interpretare la guerra ai pellerossa e la loro progressiva decimazione usando l'ottica e la parola degli aggrediti, dei conquistati, degli sconfitti. E quasi contemporaneamente escono tre film dalla parte dei nativi americani: Un uomo chiamato cavallo con Richard Harris, Piccolo grande uomo con Dustin Hoffman e Soldato blu con Peter Strauss e Candice Bergen. Si determina una nuova sensibilità che, nel '72, porterà una star di Hollywood come Marlon Brando a inviare una donna indiana a ritirare al suo posto l'Oscar per il film Il Padrino.Nel '74, poi, un film italo-francese di Marco Ferreri - Non toccate la donna bianca - opera una nuova sintesi immaginifica. La curiosità della pellicola sta nella trasposizione del Wild West in una "metropoli" occidentale come la Parigi degli anni '70. Si vedono Custer e i suoi soldati in uniforme d'epoca cavalcare tra negozi e semafori, nell'allora demolendo quartiere di Les Halles. Gli indiani sono in realtà gli abitanti del quartiere stesso (in maggioranza clochard), sfrattati ma restii a lasciare le proprie abitazioni.A questo punto, il materiale dell'immaginario c'è tutto. E quarant'anni fa, nell'estate del 1976, sulla scena italiana irrompono quelli che verranno chiamati "indiani metropolitani". Già nel Parco Lambro, dove dal 26 al 30 giugno si tiene l'ultima, travagliata edizione del Festival del proletariato giovanile, cui partecipano più di 400mila persone, appaiono i primi segnali di indianità con uno strano manifesto che fa: "Abbiamo dissotterrato l'ascia di guerra". Poi, a Roma, l'ipotesi comincia a prendere corpo. «Concretamente - racconta Olivier Turquet, uno di coloro che si faranno "indiani" - c'era, sulla Cassia a Roma, un gruppo di amici che si riuniva in una casa, pomposamente chiamata "la comune", e discuteva dei temi alla moda: il personale e il politico, l'autocoscienza, la rivoluzione, la libertà; era una coabitazione tra amici, in realtà, ma era un fenomeno raro per l'epoca e quella casa finì per essere una specie di punto di riferimento per il quartiere, all'epoca a metà tra il residenziale e la borgata... ».Tutto questo dura dal '74 al '76, più o meno. Quarant'anni fa, e questo è l'evento scatenante, nel quartiere vogliono chiudere l'unico spazio verde pubblico esistente, Villa Paladini, per farci la solita bella speculazione edilizia in stile democristiano. E contro il tentativo di speculazione il gruppo esce fuori dall'eterna diatriba sul cambiare prima sé stessi e poi il mondo o viceversa. Improvvisamente appaiono alcune scritte nel quartiere, striscioni in mezzo alla Cassia, una specie di blocco stradale, una festa molto colorata e, si riesce a far sì che la cementificazione si fermi. E un bel giorno d'inizio estate a qualcuno di quel gruppo viene in mente di andare a una manifestazione in centro con uno dei loro striscioni colorati. "Gruppo Geronimo" dice qualcuno e il bravissimo grafico, "nipote di un famoso illustratore", spiega Turquet, disegna il capo comanche che brandisce un fucile sulla sinistra dello striscione, dominato dalla scritta un po' quadrata, ravvivata da schizzi multicolori. «Così, belli e ingenui, con un'identità appena inventata, andiamo - prosegue l'indiano - a una di quelle manifestazioni tozze dell'epoca e ci sbattono in coda, dietro agli autonomi brutti e cattivi. Succede il patatrac e i suddetti autonomi, appena cominciamo a gridare slogan non propriamente in tema come "Orgasmo libero" e "Il potere è allergico all'acido lisergico" pensano bene di cominciare a picchiarci e a spaccarci in due il bello striscione, reo di non essere rigorosamente rosso?». Tra gli strani e inediti slogan strani, ce n'era uno che, per venire alla nostra questione, recitava: "Apaches, cheyennes, sioux, moicani, siamo gli indiani metropolitani". Il tutto finisce su un trafiletto su la Repubblica che annuncia la nascita di un nuovo gruppo, denominato "Geronimo".Chi erano questi ragazzi? Più che altro giovani disincantati, in fuga dalla antiquata militanza politica nei gruppi della sinistra rivoluzionaria, qualcuno si beava di un'anima irriverente, libertaria e freak, altri erano già impegnati nell'ambito culturale ma qualcosa gli andava stretto. Erano tutti ventenni e si erano stufati della politica fatta in un certo modo, gerarchico, militarizzato, bellicoso, ideologico e aggressivo. Sciamavamo per il centro storico di Roma come dei flaneur, in "derive" psico-geografiche situazioniste (sulla scorta di Guy Debord), in cui si riscopriva il piacere della scoperta dei luoghi, in un periodo in cui la città era blindata e a compartimenti stagni. Tra loro, oltre a Turquet - che diverrà noto alle cronache con lo pseudonimo di Gandalf il Viola - anche Pablo Echaurren (oggi grande artista e autore di importanti pubblicazioni anche sul fenomeno degli indiani e al quale è stata dedicata una importante sezione della mostra "Echaurren-Contropittura" alla GNAM di Roma), Maurizio Gabbianelli, Massimo Terracini e Carlo Infante. L'anno successivo questo gruppetto si attiverà all'Università e siglerà alcune testate autoprodotte come Abat/jour e Wam oltre al più curioso Oask?! , fanzine-collage di testi collettivi.Una cosa va però spiegata: con la sigla di "indiani metropolitani" finì per essere identificato non solo quel gruppo specifico, ma si riconobbero nell'espressione anche altre esperienze spontanee e spontaneiste, anche diverse tra di loro, ma tutte unificabili dalla deriva scanzonata, dadaista, irriverente, dall'utilizzo di nuovi linguaggi e dal rifiuto della logica della vecchia militanza. Obiettivo non era solo quello di scandalizzare il borghese ma anche il militante ideologizzato che rappresentava la caduta più criticabile del sinistrese. Ragion per cui furono, a loro modo, "indiani metropolitani" anche i radical-libertari Mario Appignani, che non a caso divenne il famoso Cavallo Pazzo (il celebre "provocatore" negli eventi e in tv), e il suo amico fraterno Marco Erler, il quale scelse per sé il nome di Nuvola Rossa. E un ruolo, nel successivo movimento del '77 - che furono proprio gli indiani a caratterizzare come libertario e creativo - lo ebbe anche Angelo Pasquini, poi scrittore satirico e tra i fondatori del settimanale satirico Il Male, oggi sceneggiatore e regista di successo. Sarà lui, nei giorni più effervescenti del febbraio '77, a utilizzare dadaisticamente materiale propagandistico del Psi - da lui recuperato a luglio '76 nel Congresso socialista che aveva eletto Craxi - nel corso delle manifestazioni settantasettine: inauditi e provocatori striscioni pro-Craxi in cortei guidati dagli autonomi e dagli ultrà del vetero marxismo-leninismo.Dopo il manifestarsi quarant'anni fa del gruppo Geronimo, l'espressione "indiani metropolitani" trionferà sulla stampa nel febbraio '77, quando alcuni di questi ragazzi si ritrovarono in un gruppetto nato all'interno della Commissione Emarginati (si autodefinì in questo modo per distaccarsi dalle altre seriose e ideologizzanti commissioni sorte nei giorni dell'occupazione dell'Università di Roma) che a Lettere e Filosofia lanciò in grande stile il dadaismo in politica. Un'operazione che si svolse a più livelli. Uno, quello determinante, consisteva nel creare e lanciare slogan nelle assemblee da parte di chi aveva la voce più grossa. Oltre a scriverli con gli spray sui muri e con i pennarelli nei tazebao. Un altro era quello di compiere atti esemplari come inscenare cortei in "fila indiana" lanciando il verso Oask?! (il nome del loro giornaletto) associandolo a un particolare movimento delle braccia. Oppure farsi il tè o il karkadè nei cortei, apparendo in evidente contrasto col la retorica militarizzata dei servizi d'ordine. Per non dire, sulla scorta degli indiani d'America, del truccarsi il viso con segni e colori da guerra?C'è chi ha sostenuto che quella degli indiani metropolitani non fu soltanto una goliardica rivolta generazionale. Ma un qualcosa di più generale che permeò lo spirito del tempo e che - magari inconsapevolmente - coinvolse tutta una sensibilità che va dai fumetti di Andrea Pazienza sino alla musica, e ai testi, di Rino Gaetano. Fatto sta che nelle motivazioni profonde di quell'esperienza, stando anche all'incrocio con le esperienze bolognesi interne al Dams, di Radio Alice e di Bifo, si profilavano in qualche modo nuovi orizzonti estetici ed esistenziali dellasocietà italiana che avevano indubbiamente le loro radici nella storia del Paese. Non a caso l'accusa più contestata a quei giovani era di imitare le componenti irrazional-vitaliste dell'avanguardia futurista. L'intuizione dell'indianità, come abbiamo visto, era rivolta innanzitutto contro le involuzioni della politica postsessantottina e soprattutto contro i detriti gruppuscolar-marxisti. Del resto, nessuna nomenklatura successiva ha mai potuto identificarsi fino in fondo con l'eredità vera degli "indiani". Annoterà, in un bilancio storico, l'ex indiano metropolitano che fu estensore anonimo dei Manoscritti antieconomici e antifilosofici del 1977: «Pacifisti, ambientalisti, femministe e radicali, sono tutte esperienze che non hanno incarnato compiutamente il tratto caratteristico degli indiani metropolitani: il miglior Nietzsche contro il peggior Marx».