In un caleidoscopio di colori, in un insieme di fisicità e plasticità corporea che arricchisce lo sguardo dello spettatore e ne esalta la poetica del testo drammaturgico, all'interno di una cornice scenografica e coreografica maestosa e suggestiva, animata da attori, mimi, danzatori e musicisti prende forma la rappresentazione I Giganti della Montagna.

Si tratta dell'ultimo testo, incompleto, di Pirandello, con Gabriele Lavia che ne firma la regia e ne è anche interprete nei panni di Cotrone detto il Mago. E' in scena fino al 26 gennaio al Teatro Mercadante di Napoli, che ha inaugurato con successo la stagione 2020.

Con Lavia recitano Federica Di Martino, Clemente Pernarella, Giovanna Guida, Mauro Mandolini, Lorenzo Terenzi, Gianni De Lellis, Federico Le Pera, Luca Massaro, Matilde Piana, Ludovica Apollonj Ghetti, Michele Demaria, Simone Toni, Marìka Pugliatti, Beatrice Ceccherini, Luca Pedron, Laura Pinato, Francesco Grossi, Davide Diamanti, Debora Rita Iannotta, Sara Pallini, Roberta Catanese, Eleonora Tiberia. In una villa, che è più un teatro antico che si presenta allo sguardo sventrato e diroccato, si muove una corte di sbandati, di autoemarginati, guidati da Cotrone che, con il suo copricapo alla turca, sembra tenere i fili di questi personaggi, allegri burattini e mimi, figure che si muovono in una suggestiva apparizione quasi da morti viventi.

Vivono in un luogo appartato che è appunto la villa della scalogna. Sullo sfondo, coperto da un lenzuolo, c'è il luogo che Cotrone chiama «l’arsenale delle apparizioni per colmare i vuoti della nostra compagnia» : in pratica una fragile difesa della vita all’esterno.

Si tratta di una strana villa dove si avverano singolari prodigi.

Una compagnia di attori guidata dalla contessa Ilse, con i suoi capelli rossi, sciolti, emaciata, svenevole, nevrotica nelle movenze, che non trovando posto presso i comuni teatri, si reca alla villa degli Scalognati, accolta con favore da Cotrone. «Non contessa: chiamatemi attrice», sussurra.

Aristocratica impoverita che ha dilapidato i beni del marito per rappresentare la Favola del figlio cambiato scritta da un giovane poeta che l’amava e che si è suicidato per lei, e come se non accettasse di vivere nella realtà, trascina con sé nel baratro i resti di quella che fu, un tempo, la sua compagnia.

Ma Cotrone la convince che tutto può realizzarsi in questo particolare luogo delle apparizioni, basta solo una innocente convinzione: «Siamo qua come sugli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando, si distaccano, entra l’invisibile: evaporano i fantasmi. È cosa naturale. Avviene ciò che di solito succede nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia. Ecco tutto. I sogni, la musica, la preghiera, l’amore… Tutto l’infinito che è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa».

Così Cotrone invita Ilse a rimanere lì, a recitare per gli ospiti di quell’incantata dimora.

La messa in scena provoca una efficace suggestione creata anche da un disegno di luci che si infrange e restituisce colore ai costumi, alle maschere di fantocci umani che si muovono se qualcuno li tocca o li provoca, pronti a rappresentare se stessi e il caos di un mondo che non c’è, nel quale tuttavia anch’essi hanno deciso di vivere, muovendosi come marionette meccaniche.

Il sipario ai quattro venti per proteggere la poesia dal mondo esterno, aggressivo, violento, dove i protagonisti sono proprio quelli che non si vedranno mai, i giganti della montagna, di cui avvertiremo incombenti e minacciosi alla fine il pesante passo che si avvicina.

«Lo sanno tutti, è lo stesso Luigi Pirandello» scrive Gabriele Lavia nelle note di regia. «Ma Cotrone è anche qualcosa di più. È colui che vive rifugiato o emarginato nella propria illusione che il Teatro possa essere il Luogo Assoluto. Fuori da ogni contaminazione.

Lontano da quei Giganti, da quelle “forze brute”, da quegli uomini ( forse noi stessi!) che mettono paura solo a sentirli passare al galoppo!... I Giganti sono uomini che hanno dimenticato la coscienza della loro origine. Snaturati dal non voler conoscere se stessi. E dunque non possono far altro che continuare a uccidere la “poesia originaria” nata come specchio dell’uomo... uccidere il Teatro. Ma il finale “non scritto” vorrei che fosse una speranza, meglio, una certezza laica, che “la poesia non può morire”».

Il testo è poetico, intenso, commovente. Lavia è un mattatore e regista rigoroso che governa e riempie la scena. Gli attori, le attrici, i mimi, i danzatori si muovono in una corale armonia come girandole colorate, quasi parafrasando una scena felliniana. Sono bravi tutti, applausi a scena aperta.

L'intensa scenografia è di Alessandro Camera, i costumi colorati e gioiosi di Andrea Viotti ( Premio Le Maschere del Teatro Italino 2019), le musiche di Antonio Di Pofi, le luci di Michelangelo Vitullo, le maschere di Elena Bianchini, le coreografie di Adriana Borriello. Lo spettacolo è una produzione della Fondazione Teatro della Toscana.