Questo straordinario libro - Ispezioni della terribilità. Leonardo Sciascia e la giustizia a cura di Lorenzo Zilletti e Salvatore Scuto - è sul pensiero di Leonardo Sciascia, ma va al di là di Leonardo Sciascia: è un libro sul dolore umano che sempre si collega all’amministrazione della giustizia, e, più in generale, all’esercizio del potere. E’ un libro sulla responsabilità di decidere sulla sorte di un uomo; sui collaboratori sempre creduti, perché «il far nome di sodali, di complici è sempre stato dai giudici inteso come un passar dalla loro parte» ; sulla pena di morte e su un “piccolo” giudice che ebbe la forza di opporsi, in epoca fascista, alla sua applicazione, come scrive Insolera, sul rapporto tra Verità e Potere, sul potere giudiziario privo di responsabilità; sulle miserie del sistema giudiziario, e sul “terribile” e pur “necessario” mestiere del giudicare; è, infine, un libro sull’errore giudiziario che si riassume nelle parole di Sciascia: «Per come va l’ingranaggio, potrebbero essere tutti innocenti».

A ben vedere tutto ciò non ha in sé nulla di nuovo, per lo meno a partire da Voltaire e dall’illuminismo, da Beccaria e dai fratelli Verri. Allora qual è, qual è stata, la grandezza di Sciascia che emerge dalle pagine delle “Ispezioni della terribilità”? La risposta che mi sento di dare è che Sciascia ha trasformato le parole dei giuristi in carne e sangue di coloro che sono stati vittime della ferocia dei giudici.

Il volume nasce dal felice incontro tra l’Associazione amici di Leonardo Sciascia e l’Unione delle camere penali, impegnate tra il settembre del 2020 e il giugno 2021 in una serie di Letture ‘sciasciane’. Si parte dall’assunto che il volto feroce della giustizia non appartiene ad epoche remote, ma è realtà presente.

«Terrificante è sempre stata l’amministrazione della giustizia». Il passaggio è tratto da «La strega e il capitano», in cui Sciascia ricostruisce scrupolosamente la condanna al rogo di Caterina Medici (nel 1617 a Milano) fantesca nella casa del senatore Luigi Melzi, considerata responsabile dei suoi strani dolori di stomaco e per questo bruciata. La rievoca Salvatore Scuto ponendo la eterna questione del «rapporto tra il senso assoluto della giustizia e la realizzazione che di essa fanno le leggi».

L’idea base del volume è questa: Sciascia è insieme “testo” e “pretesto”. Testo perché si commentano frasi sulla giustizia penale tolte dai suoi lavori di narrativa, frasi di efficacia straordinaria per la loro forza comunicativa. Pretesto, perché parlare di Sciascia è parlare di giustizia, quella intesa come potere, come macchina violenta che chiunque può stritolare nei suoi ingranaggi, con gli interventi di penalisti, di costituzionalisti, di intellettuali d’altra cultura e infine di avvocati.

Paolo Borgna ragiona su una frase de il “Contesto”, romanzo sull’errore del giudicare, in cui un personaggio dice: “Sì, ero innocente. Ma che vuol dire essere innocente, quando si cade nell’ingranaggio? Nientevuol dire, glielo assicuro”.

Sciascia, per Vincenzo Maiello, ha il merito di introdurre nel lessico civile vocaboli e concetti che identificano un paradigma di giustizia penale conforme allo Stato di diritto, costruito sulla inviolabilità dei diritti umani.

Paolo Ferrua muove dall’affermazione di Sciascia: «Il potere di giudicare i propri simili non può e non deve essere vissuto come potere», per poi ricostruire la lenta, ma costante distruzione del processo accusatorio da parte dei giudici per riacquisire tutto quel potere che era stato sostituito dalla logica della ragione e dalla dialettica.

Emanuele Fragasso ricorda, a conclusione del suo intervento, le parole con cui si chiude “Porte aperte”: «sono parole di incoraggiamento verso l’uomo, a condizione che questi sia risoluto a combattere per la sua libertà e per l’umanità che è presente in ogni uomo».

Ogni intervento meriterebbe di essere ricordato ben più ampiamente di quanto si è fatto sin ora: tuttavia, ognuno di essi è talmente ricco di riflessioni, di citazioni di Sciascia, di osservazioni giuridiche e non giuridiche, che appare un’opera impossibile.

In chiusura vorrei toccare un aspetto di Sciascia che mi ha particolarmente colpito. Gli scritti contenuti in questo libro danno anche un quadro delle contraddizioni, forse irrisolvibili, che animano il mondo della giustizia. Sciascia ha investigato, ma la realtà è talmente complessa che alcune domande sono rimaste senza risposta, perché nel difendere un principio si finisce per oscurarne, o sottovalutarne un altro. Anche in questo sta la grandezza di Sciascia: non ci ha presentato una soluzione di tutti i problemi, un mondo della giustizia perfetto, nel quale si trova sempre una risposta giusta. Sciascia ha lasciato, a chi lo avrebbe letto, una eredità di grandi dubbi, di nodi inestricabili: ne cito un paio.

Il rapporto tra la giustizia e il popolo. Sciascia ha scritto che il popolo deve vigilare su come i giudici amministrano il loro potere; ha individuato però nella ricerca del consenso popolare gli eccessi di non pochi magistrati. Ciò è accaduto in passato, e accade oggi: “mani pulite” ha reso le Procure dei soggetti politici, ha creato un consenso popolare dando ai magistrati un ruolo di “difensori dell’onestà”, a prescindere dalla colpevolezza degli imputati.

Il rapporto tra giustizia e legge scritta. Sciascia censura quei giudici che si fanno essi stessi creatori del diritto piegando le norme ai propri fini. Nello stesso tempo, però, descrive il giudice di Porte aperte come un uomo che ha forzato la legge per non applicarla, visto che in quel caso prevedeva la pena di morte. In quali casi il giudice può piegare la legge alla sua coscienza?

Infine, un’ultima domanda: c’è un mezzo per avere una giustizia meno crudele, o la giustizia per governare non può essere diversa da ciò che è? Sciascia non lo dice, ma con la sua lotta per il diritto ha testimoniato che conta soltanto continuare a credere che sia possibile.