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Amadeus – ma ormai anche nelle case degli italiani familiarmente “Ama”, come lo chiama Fiorello – è un “tessuto molle”, come si definisce in medicina, ovvero tutto ciò che non è osso: non è rigido, non è puntuto, non si spezza. Fiorello lo maltratta, lui ride, fa lo scemo; la Muti inciampa nelle parole o nell’abito, chissà se s’è fatta un cannone, lui fa finta di nulla; i Maneskin, quattro ragazzi tatuati dalla testa ai piedi, mezzi nudi, con le pecette sui seni – insomma non proprio dei figliuoli dabbene – lui ci parla come lo zio un po’ svanitello, felice che al pranzo di famiglia della domenica ci siano anche loro pure che mettono i gomiti sulla tavola e non si fa. Niente a che vedere con Fabio Fazio, tutto cerebrale, roba da “ceto medio riflessivo”. Amadeus è la prosecuzione di Pippo Baudo con altri mezzi – il nazional-popolare rimane il solco tracciato. Pippo Baudo scherzava maldestramente con Roberto Benigni, adorava Loredana Bertè quando non era una signora, andava a abbracciare l’uomo che si voleva buttare dalla balconata dell’Ariston, faceva entrare gli operai in sciopero a spiegare le ragioni della protesta: capace di assorbire tutto, senza che i capelli gli si scompigliassero mai, senza alzare il sopracciglio, senza che gli occhiali gli scivolassero sul naso. La democristianeria che si fa spettacolo, tutto assorbe, tutto risputa. Io non so se davvero moriremo democristiani. Quello che so è che canteremo sempre da democristiani al festival di Sanremo. Alla fine, un po’ ci rassicura, dopo averci inquietato per anni.