Ci sono molti day after, ormai, nella lunga crisi della magistratura. Ieri a emettere ancora invisibili ma violentissime radiazioni sono state le parole di Sergio Mattarella: l’ordine giudiziario deve «ritrovare credibilità». Il presidente della Repubblica è convinto che l’obiettivo non sia irraggiungibile: visto che la gran parte dei magistrati è sana, basta che al Csm possano essere elette anche le toghe estranee alle degenerazioni del correntisno. La riforma del Consiglio superiore deve dunque prevedere una rigenerazione «dal basso»: è la convinzione radicata al Quirinale, che ha ormai conquistato anche il guardasigilli Alfonso Bonafede. Il quale nell’ultimo incontro con gli sherpa della maggioranza, martedì scorso, si è impegnato ad approfondire l’efficacia di un paio di sistemi per eleggere i togati, entrambi orientati a favorire l’emersione di giudici e pm apprezzati per dedizione e autorevolezza anziché per appartenenza. Uno è il modello cosiddetto australiano, basato su una molteplicità di preferenze, due o addirittura tre, che il singolo magistrato elettore è tenuto a indicare. «È un meccanismo molto interessante», spiega al Dubbio Alfredo Bazoli, capogruppo dem nella commissione Giustizia della Camera e protagonista della “task force” riunita ormai con cadenza bisettimanale dal ministro. «Sterilizza in modo significativo il condizionamento delle correnti perché rende ancora più importante la specifica, personale riconoscibilità del singolo candidato. L’uninominale», dice Bazoli, «a me sembra in ogni caso il miglior sistema, da noi previsto nella proposta di legge a prima firma di Ceccanti e mia nella declinazione secca. Ma il correttivo della preferenza multipla crea una sorta di implicito doppio turno ancora più favorevole ai candidati espressi direttamente dalla base dei magistrati».

L’altro è il sistema proposto dall’ex presidente del Senato Pietro Grasso, che punta a decentrare il meccanismo elettorale ancor più di quanto non prevedano i 19 collegi con cui Bonafede immaginava di sostituire l’attuale collegio unico nazionale. Una cosa è evidente: all’idea del sorteggio, rilanciata ancora ieri dal centrodestra con Pierantonio Zanettin, proprio non si vuole arrivare.

Ma la verità è che la “guerra al “correntismo” - in sé espressione velleitaria, visto il suo connotato culturale - comincia a cedere il passo alla sfida contro il “carrierismo”. Sul punto si è sbilanciato, almeno un po’, lo stesso presidente dell’Anm Luca Poniz, intervenuto ieri a “La riforma Radicale della giustizia”, il grande convegno “da remoto” organizzato dai pannelliani e trasmesso da Radio Radicale, che proseguirà oggi con i rappresentati di avvocatura e accademia e si chiuderà domenica con la sessione ( inizio sempre alle 15) riservata a esponenti dei partiti e dell’informazione. Poniz sa che uno dei problemi è la corsa al carrierismo indotta dalla gerarchizzazione delle Procure. Ne ha scritto anche sul Dubbio. Sotto la sua presidenza, l’Anm ha già vietato la candidatura al Csm per chi, al momento di formare le liste, faccia parte del comitato direttivo (ed eventualmente anche della giunta) dell’Associazione. Tra le ipotesi valutate martedì scorso a via Arenula è affiorato un limite che impedisca, a chi è eletto nel “parlamentino” dell’Anm, di candidarsi non solo mentre è in carica ma anche alle elezioni per il Csm successive alla fine del proprio mandato associativo. Non è semplice trasferire in modo giuridicamente efficace una simile previsione, visto che il “sindacato” dei magistrati è pur sempre un’associazione privata. E per questo non si esclude che a farsi carico del divieto sia proprio l’Anm, in una sorta di accordo fra gentiluomini politica- magistratura.

L’idea di un simile “coinvolgimento responsabile” dell’associazionismo giudiziario si fa rapidamente strada anche all’interno della maggioranza. «I meccanismi elettorali, le regole in sé, non saranno sufficienti a superare la crisi in cui si trova la magistratura», osserva per esempio Federico Conte, deputato che rappresenta Leu nei vertici a via Arenula. «Serve uno scatto d’orgoglio culturale, un sussulto dei magistrati, in cui evidentemente il Capo dello Stato nutre ancora fiducia. Non può essere la politica», secondo Conte, «a normalizzare un ordine, come quello giudiziario, che costituisce tuttora un riferimento essenziale nella società. Lo si deve preservare, anche rispetto al pluralismo delle correnti, che va considerato una risorsa, non una iattura».

Conte è avvocato e parlamentare noto, certo, per il lodo sulla prescrizione da lui architettato, ma è anche formato a quella scuola politica del socialismo che a inizio anni Novanta avrebbe preferito l’autoriforma al terremoto di Mani pulite. Ed è interessante che proprio da chi perse, culturalmente, quella sfida, venga ora l’invito a lasciare che la magistratura rigeneri se stessa senza subire purghe dall’esterno.