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cartabia riforma giustizia riparativa
di Paola Maggio*
Sorprendono non poco le incursioni a pochi giorni dall’insediamento del nuovo governo sulla materia penale. Dal presidio penalistico rafforzato contro i rave, all’ergastolo ostativo, al rinvio della “riforma Cartabia”. Di quest’ultima, nel dibattito pubblico, qualche voce invoca non solo la già ottenuta procrastinazione temporale a opera dell’art. 6 d. l. 31 ottobre 2022, n. 162, subito oggetto di questione di costituzionalità, bensì la cancellazione, rea come sarebbe di un collasso della presunzione di innocenza e di una perdita della funzione cognitiva del processo. Se tutte le opinioni sono sempre meritevoli di considerazione e, anzi, di valorizzazione nel punto in cui auspicano una meditazione più ampia sui molti innesti operati dal d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, a beneficio di una migliore resa normativa, preoccupano invece le contrapposizioni manichee, dimentiche in qualche caso delle ragioni che hanno indotto alle modifiche.
Vale allora la pena ricordare il punto di partenza di una manovra che per contenuti e aree di interesse è fra le più capillari degli ultimi anni. Da dove partiamo per lamentare i danni nefasti e futuribili della riforma Cartabia? Da una situazione aurea di rispetto delle tempistiche processuali? Da una realtà irenica del modello, lontana dal panpenalismo asfissiante? Da una proiezione penitenziaria ottimale? Sembrerebbe proprio di sì, a sentire i detrattori delle novità rinviate. Al proposito, “darei qualche numero” per tentare di descrivere la situazione reale, nella quale gli innesti normativi si inseriscono. Partirei dalla fine: dall’output, dalla pena e dal carcere in particolare.
Nella relazione annuale dell’Autorità garante delle persone private della libertà, fatta anche di dati e di statistiche, trovano descrizione drammatica un carcere disumanizzante, i difetti di tutela dei detenuti, le dimensioni macroscopiche del disagio psichico fra i ristretti. Tutta la Relazione è tenuta insieme da un comune denominatore: il Tempo. Il tempo non lontano che ci separa dai fatti tragici di Santa Maria Capua Vetere; il tempo scandito dal bollettino giornaliero dei suicidi in carcere (78 persone si sono tolte la vita sino all’ 11 novembre 2022); il tempo senza fine delle ostatività di taluni reati in relazione ai regimi penitenziari e il tempo delle messe in mora delle Corti rispetto alle disarmonie convenzionali e costituzionali di questa disciplina.
Per non perdere di vista la situazione reale, rinvierei al monitoraggio del Comitato del Consiglio d’Europa sulla prevenzione della tortura dal quale emergono i guasti del sovraffollamento quale fattore di grave violazione dei diritti umani in un contesto compromissorio della finalità risocializzativa della pena.
Se poi fossimo oltremodo curiosi e volessimo guardare a qualche dato sistemico, spunti di interesse offrirebbe la Relazione sullo stato di diritto per il 2022 della Commissione Ue, nella quale si dà atto del duplice intento di potenziare garanzie ed efficienza del processo penale, introducendo anche una riforma organica sulla giustizia riparativa. Il rapporto dell’Ue evidenzia gli sforzi compiuti dall’Italia con l’ampia manovra riformistica per la celere definizione dei procedimenti penali, anche ampliando l’applicazione di procedure semplificate, promuovendo l’impiego della tecnologia digitale e definendo i termini temporali per le indagini preliminari. Ulteriori dettagli offre la Relazione di sintesi del Primo presidente della Corte di Cassazione per l’anno 2021, dominata dal tarlo dell’eccessiva durata dei processi.
Senza trascurare infine un altro frangente particolarmente pruriginoso: la notissima evenienza che la scure del PNRR incombe sulle modifiche. Si fa fatica ad accettare che la pressione economica degli aiuti europei determini interventi sulla giustizia. Ma, ci piaccia o meno, questa pressione originata dalle tempistiche irragionevoli dei nostri processi c’è. Esiste. È impossibile non tenerne conto fra i molteplici fattori che rendono ineludibile la riforma.
Il d. lgs. n. 150 del 2022 esprime di certo un tentativo di sintesi non agevole fra garanzie ed efficienza, ma significativo di un cambio di passo su molti versanti. Cito rapsodicamente: la rivitalizzazione delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi; i controlli sulla corretta iscrizione della notizia di reato, i criteri di priorità, la mutata regola del non luogo a procedere, l’ampliamento delle ipotesi di improcedibilità, la disciplina della giustizia riparativa. Quest’ultima, già immanente nella prassi, è ora normata in aderenza agli input sovranazionali e ai migliori standard.
L’ampia affermazione dell’assoluta consensualità e della volontarietà della partecipazione ai programmi, nonché la valutazione in chiave di esclusivo favor dell’esito riparativo consentono di superare le evocate perplessità sul pregiudizio della presunzione di innocenza. Quanto poi alla paventata fuga dal processo, va detto che l’esito riparativo favorevole ha una ripercussione diretta sull’accertamento, inserendosi fra le varie tecniche di degradazione della risposta penale senza automatica rinuncia alla sanzione. Si abbina così all’impegno personalistico dell’autore un coinvolgimento reale della vittima, nel segno dell’ultima ratio.
Un disegno di tale ampiezza sottende inevitabili discrasie. Tutte da sedimentare e da meditare. Ai sensi dell’art. 1 comma 4 l. n. 134 del 2021, il governo fruisce di un’ulteriore delega da esercitarsi entro i due anni dall’entrata in vigore del decreto legislativo n. 150 del 2022 per le opportune correzioni.
Dunque, una volta limate nel termine breve che ci separa da fine dicembre, data di entrata in vigore della “Riforma Cartabia”, le incongruenze riferibili alla fase transitoria, già isolate nei principali nodi critici, si potrebbe (e dovrebbe) utilizzare questo biennio per una riflessione approfondita, corale, partecipata fra tutti gli operatori del diritto e gli studiosi di settore. Un dibattito democratico e costruttivo, non lo scomposto berciare di istanze distruttive, cui siamo abituati.
Alterare nell’immediato l’impianto globale della Riforma o modificarlo geneticamente, dimezzarne i contenuti che sono stati pensati ( e andrebbero colti tutti) in una dimensione sistemica, è rischio da scongiurare. Altrimenti si sarebbe costretti a dare ragione al cinismo di Flaiano quando scriveva: «l’italiano è mosso da un bisogno sfrenato di ingiustizia». (*Docente di Diritto processuale penale Università di Palermo, già componente della commissione Cartabia per la giustizia riparativa)