DA MELITO PORTO SALVO

«Quanto alla riconoscibilità del consenso da parte degli imputati, il consulente dichiarava che esistono agli atti del processo una serie di conversazioni tra la minore e gli imputati da cui emerge un atteggiamento di complicità e non di dissenso da parte della minore: questa circostanza, unitamente a quella per cui gli imputati coinvolti nella vicenda hanno un livello culturale medio- basso, porta ad escludere che gli stessi fossero in grado di riconoscere un dissenso che non fosse esplicito».

Il giudice di primo grado, nelle motivazioni del processo “Ricatto”, scrive più volte di una «non raggiunta prova della riconoscibilità del mancato consenso della vittima», evidenziando un’ambiguità «dell’atteggiamento della minore». Nonostante ciò, Michele Nucera, Antonio Verduci e Lorenzo Tripodi, sono stati condannati anche in Cassazione, a 6 anni di reclusione per violenza sessuale in gruppo. Si tratta solo di tre dei sei appartenenti al “branco di Melito Porto Salvo”: ragazzi maggiorenni ( solo un minorenne) che tra il 2013 e il 2015 hanno abusato di una ragazzina che all’epoca dei fatti aveva soltanto tredici anni. Oggi, giovani adulti, si trovano rinchiusi nella sezione protetta del carcere di Reggio Calabria. Michele, Antonio e Lorenzo condividono la stessa cella e anche gli stessi pensieri, «non si danno pace e non capiscono il perché della condanna», dicono le loro madri, che hanno vissuto i tre gradi di giustizia in religioso e rispettoso silenzio.

Adesso però gridano al mondo l’innocenza dei loro figli. “In nome del popolo italiano condanno”, e Raffaella, la mamma di Lorenzo, da quel giorno ha smesso di parlare in scioltezza, deve tenere la mandibola con la mano ma le parole ugualmente non riescono ad uscire. Raffaella parla e i suoi occhi si bagnano di lacrime che a stento trattiene, al suo fianco ci sono Maria - che sembra la più forte del gruppo ma che si commuove di continuo al pensiero del figlio - e Vittoria, a cui non hanno permesso di assistere alla laurea in Scienze infermieristiche di un altro figlio.

Con lei c’è il marito che, dopo una vita trascorsa indossando la divisa, adesso spende ogni battito di cuore per mostrare l’innocenza del figlio coinvolto nel processo “ricatto”. Le ultime due sono mamme di Michele e Antonio. «I nostri figli - dicono- sono in carcere da innocenti e sono sempre più spenti». Non si arrendono alla pronuncia della Cassazione, che timbra i loro ragazzi come stupratori senza scrupoli. «Siamo pronte a tutto», e per la revisione del processo hanno composto un pool difensivo determinato, tanto quanto loro, «a mostrare l’innocenza dei ragazzi che si trovano vittime di false accuse», dicono gli avvocati Maria Domenica Vazzana, Serena Gasperini e Daniele Fabrizi, pronti ad avviare mezzi di impugnazione straordinari.

Intanto però la speranza della revisione passa mercoledì anche dall’aula Bunker del tribunale di Reggio Calabria, dove si sta celebrando uno stralcio del processo “Ricatto”, a carico di Antonio Verduci: per un motivo tecnico, il suo nome non è stato inserito nei capi d’imputazione del procedimento madre. «Siamo ben lieti di quella svista perché abbiamo modo di dimostrare e rappresentare alla Corte come sono andati i fatti, portando le prove dell’innocenza», dicono le avvocate, «possiamo iniziare a smettere di parlare di branco e di ricatto». Alle loro competenze legali hanno affiancato consulenti del calibro della criminologa Roberta Bruzzone, che ha ricostruito la storia guardando ai comportamenti dalla persona offesa, e dell’ingegnere Paolo Reale, che ha effettuato l’analisi di digitar forensi sul computer della vittima recuperando «materiale che», dicono i legali, «non è mai entrato nel processo e mostra l’innocenza dei ragazzi».

Ma i fatti al momento sono quelli esposti dalla pubblica accusa e confermati dalla Cassazione: a Melito Porto Salvo, cittadina sulla costa ionica di Reggio Calabria, nell’estate del 2013, quando ancora faceva la seconda media, la vittima si è innamorata e fidanzata con Davide (uno dei sei condannati), dopo qualche tempo il ragazzo la lascia e lei inizia una storia con Antonio ( un altro dei sei condannati). Dopo poco i due si lasciano e lei cerca di ritornare con Davide ma per «conquistare il suo perdono» la ragazzina in cerca d’amore finisce per diventare “giocattolo”, di lui e dei suoi amici. Un branco che agiva in due o tre per volta. «Leggete gli atti, guardate i file trovati tramite una perizia informatica dal computer della ragazza, e poi - dicono i genitori di Antonio, Lorenzo e Michele - non avrete alcun dubbio: i nostri ragazzi sono innocenti».

Leggendole, le carte, emerge uno spaccato di vita difficile, di solitudine interiore di una ragazzina che in classe sfogava in un tema la sofferenza per i genitori separati. Una bambina cresciuta in fretta che durante l’incidente probatorio cerca di raccontare i fatti nel modo più preciso e onesto possibile: «Una volta per mia volontà, poi sono stata costretta a farlo». E ancora: «Con alcuni volevo io, con altri no». Ammette anche che qualche incontro a tre lo aveva lei stessa programmato o comunque concordato, come quello del febbraio 2014. Alla madre dice che sarebbe rimasta da un’amica, invece incontra Davide e un amico di lui, Michele Nucera. I tre hanno un rapporto sessuale. La ragazzina si dice concorde almeno fino a quando sulla scena non arriva un terzo ragazzo: là, in quel momento, si sente presa in giro, usata.

Lorenzo invece viene condannato per avere, insieme all’amico Davide, abusato della ragazza all’interno di un’autovettura. «Mio figlio non si dà pace per questa condanna», dice la madre. La stessa vittima ammette: con Lorenzo non c’è stato un rapporto sessuale. Seppur i due ragazzi cercavano di tenerla ferma, lei riuscì ad opporsi: «Non consente di proseguire», scrive il giudice del primo grado. Intanto, il pool difensivo è pronto a portare in aula il materiale emerso dal computer della vittima e intercettazioni «di sicuro interesse che fin’ora, stranamente - dicono gli avvocati- non sono emerse. Il processo è tutt’altro che chiuso». Dal loro punto di vista resta «un errore giudiziario».