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Zohran Mamdani speaks during a victory speech at a mayoral election night watch party, Tuesday, Nov. 4, 2025, in New York. (AP Photo/Yuki Iwamura)
Insomma, si può governare la città più importante e ricca del pianeta anche con un programma spostato tutto a sinistra e si può flirtare con il populismo senza perdere la propria identità. È quel che insegna la vittoria di Zohan Madmani eletto sindaco di New York con oltre il 50% dei voti, lui che fino a dodici mesi fa era un perfetto sconosciuto e che oggi restituisce slancio vitale al partito democratico messo in un cantuccio dal trumpismo trionfante.
Socialista dichiarato e figlio di immigrati ugandesi, è il primo esponente dell’ala più radicale e liberal del partito a conquistare il municipio della Grande mela. La sua campagna ha ribaltato il linguaggio politico della città, parlando direttamente ai bisogni materiali dei cittadini, di servizi, sanità, scuola, di politiche sociali. Ha promesso il congelamento degli astronomici affitti (la media è di 4500 dollari) autobus gratuiti, assistenza sanitaria gratuita, case popolari diffuse e una redistribuzione più equa del carico fiscale. È chiaro che non tutto potrà essere realizzato, ma è lo scarto fisiologico che sussiste tra slogan e governo, tra propaganda e amministrazione. Quel che è certo, però, è che le sue politiche tenteranno di riequilibrare la ricchezza, spostando risorse e attenzione verso le fasce più povere.
Le prime misure annunciate vanno in questa direzione: un piano straordinario per la casa e un incremento del salario minimo. A New York vivono circa 385 mila milionari il numero più alto del mondo: l’aumento della pressione fiscale su questa fascia di reddito potrà coprire solo parte della spesa sociale prevista, ma è necessaria per finanziare l’aumento della spesa pubblica.
Mamdani ha scelto di parlare di disuguaglianza senza imbarazzi, di riportare nel lessico democratico parole che la politica centrista aveva quasi dimenticato: giustizia, solidarietà, diritti. E lo ha fatto con un tono inedito, privo di aggressività. Il suo populismo non urla, non divide, non cerca nemici; punta invece a creare un nuovo senso di appartenenza, un “noi” che includa anziché escludere. È un populismo seduttivo, non punitivo: un populismo che promette di costruire, non di distruggere.
Questa è la principale differenza rispetto al populismo trumpiano. Dove Trump agita la rabbia come strumento di potere, Mamdani la trasforma in consapevolezza politica. Dove l’ex presidente polarizza, il nuovo sindaco ricompone. Entrambi si rivolgono al “popolo”, ma con presupposti opposti: uno cerca il consenso nella paura, l’altro nella possibilità di una giustizia condivisa.
La sua elezione segna anche un momento di ridefinizione per il partito democratico. Dopo anni di compromessi e di tatticismi, la vittoria di un esponente socialista in una metropoli simbolo del capitalismo globale rimette in movimento forze che sembravano sopite. Alexandria Ocasio-Cortez e Bernie Sanders possono ora rivendicare, con legittima soddisfazione, la validità delle proprie battaglie. Il successo di Mamdani dimostra che una piattaforma di sinistra non è necessariamente minoritaria, che può diventare maggioranza quando riesce a tradurre i principi in proposte concrete e pragmatiche.
Non è detto che l’esperimento newyorkese sia replicabile ovunque. Le condizioni sociali e culturali della città sono uniche, e la sua tradizione progressista è più radicata che altrove. Tuttavia, il messaggio politico che ne deriva è chiaro: la sinistra può tornare a vincere quando ritrova il coraggio di parlare di uguaglianza, quando smette di corteggiare gli elettori moderati e riconosce che la questione sociale è di nuovo il centro del conflitto politico.
Per i democratici, questo significa riaprire un cantiere di idee e di leadership in vista delle presidenziali del 2028. Se la linea di Mamdani dovesse trovare conferme, l’ala sinistra avrebbe argomenti solidi per candidare uno dei suoi alla Casa Bianca, magari proprio Ocasio-Cortez (fin qui ineleggibile per la giovane età). L’esito del voto newyorkese potrebbe quindi segnare l’inizio di una nuova stagione politica, o di una nuova polarizzazione. Ma è un rischio inevitabile per chi decide di muoversi, dopo anni di immobilismo.
La vittoria di Mamdani ricorda che la politica può ancora essere un atto di immaginazione e non solo di gestione. Ha mostrato che si può vincere parlando ai poveri senza insultare i ricchi, chiedendo ai privilegiati di contribuire di più senza demonizzarli. Ha dimostrato che si può essere populisti senza rinunciare alla complessità, pragmatici senza perdere l’anima, radicali senza essere settari. È un segnale che va ben oltre i confini di New York: forse una piccola dose di populismo, se guidata dall’intelligenza e dal senso della misura, può davvero rigenerare un partito, e forse anche un Paese.


