PHOTO
veneziani governo meloni
Marcello Veneziani è uno degli intellettuali più apprezzati a destra e non solo. Da qualche settimana è in libreria con “Scontenti. Perché non ci piace il mondo in cui viviamo“ (Marsilio, pp. 176) nel quale scandaglia le ragioni della scontentezza che tende a trasformarsi in malcontento. Ma attenzione, sostiene Veneziani, «scontenti non vuol dire infelici, malinconici o inquieti». La grande sfida del governo Meloni, alla luce degli ultimi provvedimenti e degli interventi annunciati, è quella di rendere l’Italia un paese meno corrucciato.
La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in occasione dell’assemblea dell’Anci ha definito i sindaci un “avamposto di umanità” e ha promesso una revisione delle norme sull’abuso d’ufficio. Il governo più a destra di sempre ha intrapreso la strada del garantismo?
Non credo che la Meloni abbia promesso una revisione delle norme sull’abuso d’ufficio solo per “garantismo”: penso che la ragione primaria sia quella di incoraggiare i sindaci ad agire, a realizzare, a non tirarsi indietro per il timore, non infondato, di avere poi grane con la giustizia. E questo timore, unito alla minaccia giudiziaria, che ha già fatto tanti danni, rischia di paralizzare il nostro paese e le opere di pubblica utilità. Mi sembra una giusta preoccupazione.
Una mossa che ha spiazzato gli alleati della coalizione, soprattutto Forza Italia?
Non penso che fosse quello lo spirito dell’iniziativa. È diciamo un segno di fattività, un invito a essere decisionisti. Non mi pare che fosse a dispetto di Forza Italia o della Lega.
Pensa che sulla giustizia il governo Meloni si giocherà molte carte importanti dalle quali dipenderà la sua credibilità?
Sono molti i fronti in cui il governo Meloni dovrà dimostrare la sua credibilità, non solo la giustizia ma anche l’ordine pubblico, i flussi migratori, il rapporto con l’Europa e con la Nato, le riforme sociali ed economiche, la sanità, le grandi opere. Nella giustizia è importante che si esca dal dilemma cornuto giustizialismo- garantismo e si affronti con spirito di giustizia, rigore e buon senso, al di là delle prese di posizioni pregiudiziali.
Da un lato abbiamo la discussione aperta in merito all’abuso d’ufficio, dall’altro sono ancora vive le polemiche legate al decreto sui rave party. In questo secondo caso, pensa che il governo sia intervenuto con una certa sbrigatività?
I decreti come quello sul rave party non sono interventi strutturali, non rientrano in un piano e in una strategia, ma sono provvedimenti che rispondevano a un fatto, un’emergenza, e dunque sono improntati a un’efficacia empirica e circoscritta. Poi dovranno essere inquadrati in una più ampia visione dei problemi di ordine pubblico e libertà di manifestare. Lo stesso vale per l’abuso d’ufficio, su altri piani.
Un altro banco di prova importante sarà quello riguardante le carceri, l’esecuzione della pena e la depenalizzazione. Il centrodestra potrà accontentare il suo elettorato? Esiste una osmosi tra la paura dei cittadini e le mosse della politica?
Non si tratta di accontentare l’elettorato, quanto piuttosto di essere coerenti con le posizioni assunte finora e con gli impegni assunti con i cittadini, e per i quali si è ottenuto il consenso e dunque la possibilità di andare al governo. La Meloni è arrivata a Palazzo Chigi col voto degli “scontenti”, per usare l’espressione che dà il titolo al mio nuovo libro. È difficile in quasi tutti i campi in cui dovrà cimentarsi, ma il governo Meloni dovrà da un verso non tradire il suo impegno politico assunto con gli ' scontenti' e dall’altro non potrà troppo calcare la mano, sapendo che i governi sono in balia di forze “superiori”, sovranazionali innanzitutto, che possono mandarli fuori strada subito. È il difficile equilibrio tra il consenso popolare e l’assenso dei poteri sovrastanti; tra continuità e discontinuità.
Lei è un intellettuale molto legato alla sua terra, la Puglia, e al Sud. Pensa che con l’autonomia differenziata, così come la si sta rielaborando, ci possano essere dei pericoli per il Mezzogiorno? Il rischio è che si affermi il principio “chi più ha più deve avere” a discapito delle regioni più deboli?
Sono contrario e non da oggi all’autonomia, anche nella versione di autonomia differenziata. E non penso che si debba sempre tirare fuori il vittimismo meridionale. Credo però che i precedenti storici confermino l’effetto negativo dell’autonomia: pensate da un verso alle regioni autonome a statuto speciale e dall’altro il trasferimento di poteri e competenze dallo Stato alle Regioni, introdotto perfino nella Costituzione. Due esperienze negative. Forse il tema più serio, strutturale, sarebbe quello di rimettere in discussione le Regioni, che sono state una voragine e hanno contribuito al dissesto del Paese. Ma so realisticamente che la Meloni dovrà pure vedersela con la Lega e con la fronda interna che nel nome dell’autonomia incalza Salvini.
Oltre venticinque anni fa, la rivista “L’Italia Settimanale”, da lei diretta, definiva Gianfranco Fini “l’amico americano” a proposito di un suo viaggio a Washington. Giorgia Meloni è apprezzata oltreoceano. È il frutto di un lavoro di diplomazia che dura da anni?
Si, la Meloni segue la linea di Fini e il suo filo- atlantismo. O se vogliamo, segue la linea di Draghi, e anche del P` d, anche sulla questione Ucraina. Dissento profondamente da quella linea, ma riconosco che la sua scelta precede la nascita del governo e se non lo avesse fatto probabilmente oggi non sarebbe al governo. Che vuole, i governi sono sotto una “cappa” e se cercano di uscire o di bucare la “cappa” mettono a rischio la loro sopravvivenza.